Armi e dittature. La scelta svedese e il silenzio italiano

Articolo di: Daniele Rocchetti, responsabile nazionale Vita cristiana Acli
 
La notizia ha fatto il giro del mondo. In Svezia destra e sinistra si sono accordati per approntare una legge che limita severamente la vendita di armi a dittature, paesi autocratici e Stati che violano i diritti umani. Sarà il primo Paese al mondo ad avere molto presto una legge che contiene la “clausola della democrazia” nelle norme relative all´export di armamenti, che è una delle voci più importanti del successo industriale e di eccellenza del Paese scandinavo.

Eppure Carlo Cefaloni su “Città Nuova” fa notare come il Paese scandinavo «non vive in un mondo ideale di pace. Ha un vicino come la Russia che non fa dormire sonni tranquilli, tanto che il ministro della difesa svedese ha parlato, nell’agosto scorso, di provocazioni intollerabili da parte delle truppe di Putin che usano, nelle loro esercitazioni al confine, anche armi nucleari tattiche. Il governo svedese ha deciso di reintrodurre da marzo 2017 la coscrizione militare obbligatoria nel Paese richiamando in servizio tutti i ragazzi nati tra il 1999 ed il 2000». Nonostante questo, la scelta è stata fatta. E condivisa.
 
E l’Italia?
Chissà cosa ne pensano i parlamentari italiani. Che non molto tempo fa hanno visionato la relazione consegnata dal Governo sul commercio e sulle autorizzazioni all’esportazione di armi. I dati che emergono dal rapporto sono impressionanti: nel 2016 le esportazioni italiane di sistemi militari hanno superato i 14,6 miliardi di Euro, con un aumento dell’85,7% rispetto ai 7,9 miliardi del 2015. E se paragonassimo il dato rispetto al 2014, sarebbe ancora più eclatante: + 452% in soli due anni.
D’altronde è la stessa relazione che sottolinea come il clamoroso balzo in avanti sia dovuto soprattutto alla commessa di 28 Eurofighter della Leonardo al Kuwait del valore di 7,3 miliardi di Euro.
 
Ma a chi vendiamo?
Domanda capitale per capire il lato oscuro del made in Italy armato. C’è una legge infatti – la n. 185 del 1990 – che regolamenta in maniera esplicita il mercato bellico: «l’esportazione ed il transito di materiali di armamento – recita la norma – sono vietati verso i Paesi in stato di conflitto armato» in contrasto con le direttive Onu, «verso i Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione», «verso i Paesi responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani». Chiaro. Limpido. Lapalissiano.

Eppure sostengono gli esperti dell’Osservatorio Permanente sulle Armi leggere e le Politiche di Sicurezza e Difesa (Opal) di Brescia tra i principali acquirenti del nostro Paese troviamo il già citato Kuwait (nel 2016 esportazioni per 7,7 miliardi), l’Arabia Saudita (427,5 milioni) prima ancora degli Stati Uniti, poi Qatar (341 milioni) e Turchia (133 milioni). Tutti Stati in cui i diritti umani vengono sistematicamente violati e su cui, tra le altre cose, ci sono pesanti ombre sulla fornitura di armi e appoggio ai miliziani dell’Isis. E poi, ancora, Paesi in cui vige la pena di morte come Pakistan e Malesia (qui, ha denunciato Amnesty, nel braccio della morte ci sono attualmente 1.042 persone): per il primo sono state autorizzate esportazioni militari per 97,2 milioni, per il secondo per 39,9 milioni.
 
Un’assurda contraddizione
Quanto si è distanti dall’appello che papa Francesco ha rivolto nel videomessaggio per l’intenzione di preghiera per il mese di giugno! «È un’assurda contraddizione – afferma il Papa – parlare di pace, negoziare la pace e, allo stesso tempo, promuovere o consentire il commercio di armi». Francesco si domanda: «Le guerre sono davvero nate per risolvere problemi oppure sono guerre commerciali per vendere queste armi illegalmente, affinché i mercanti di morte ne escano arricchiti?». Da qui l’invito: «Risolviamo questa situazione».   

Lo prenderanno sul serio?