Don Tonino Bello, il vescovo con il grembiule

Articolo di: Daniele Rocchetti, responsabile nazionale Vita cristiana Acli

Tenere alto il sogno di Dio
 
C’è morte e morte. C’è qualcuno, anche famoso, di mondo e di chiesa, che è morto prima ancora di morire e ci sono altri che sono vivi anche da morti, perché per loro parlano persone e libri, parole e scelte. Tra quest’ultimi trova senz’altro posto la figura di don Tonino Bello.

A più di quindici anni dalla morte, avvenuta il 20 aprile 1993, le “parabole” del vescovo che ha sempre rifiutato il titolo di monsignore, non hanno cessato di scuotere le coscienze. Almeno a giudicare dall’enorme quantità di articoli, libri, dibattiti e convegni, ancora oggi promossi per ricordarne la figura. I suoi testi, così letti e così venduti quando era in vita, sono ancora oggi spesso esauriti e introvabili in libreria. La sua parola, poetica ed evocativa, mai astratta, sempre costellata di nomi propri e di volti, di simboli e di metafore, ha catturato l’attenzione di tanti, soprattutto giovani.

Il popolo della pace, che lo aveva avuto come compagno nel viaggio a Sarajevo, ma anche il popolo semplice, dei cristiani comuni, ha subito voluto bene ad un vescovo che, come pochi, ha saputo usare la penna per cantare le meraviglie di Dio e i dolori dell’uomo. Molto spesso il coraggio lo si ha quando non si ha più nulla da perdere: don Tonino è stato invece capace, anche a costo di essere incompreso, di gridare – da vescovo – sui tetti l’urgenza di costruire una terra più vicina al sogno di Dio. Costi quel che costi.

Aveva dunque ragione padre Turoldo quando, nell’introdurgli una raccolta di lettere, scrisse: «Caro fratello vescovo vorrei dirti quasi paradossalmente: non inoltrarti troppo su queste strade dei poveri. Vedrai quanto dovrai soffrire! Prima, perché i poveri quando sono presi tutti insieme, quando sono tanti, fanno veramente paura: ti producono dentro un’angoscia di cui non guarisci più. Poi, perché vedrai la gente come ti parlerà dietro, come ti farà l’anima a brani. Quanti ti diranno di non esagerare, di essere prudente, di non lasciarti ingannare. Ti grideranno dietro: “Tanto più che sei vescovo” rovesciando precisamente al completo la prima e fondamentale verità, perché così dovrebbe essere: “proprio perché sei vescovo”».
 
Avere a che fare con i poveri con nome, cognome e codice fiscale
 
Don Tonino (termine che terrà con orgoglio anche quando sarà nominato vescovo) nasce nella cittadina salentina di Alessano, vicinissima a Santa Maria di Leuca, il 18 marzo 1935. Figlio di un maresciallo dei carabinieri e di una donna semplice e di grande fede, trascorre l’infanzia in un paese di diecimila abitanti ad economia agricola impoverito dall’emigrazione. Di quella stagione, ricorda la miseria e la fatica ma insieme anche la memoria delle cose “semplici e pulite”.

Durante la prima concelebrazione da vescovo presieduta ad Alessano dirà durante l’omelia: «Grazie, terra mia, piccola e povera, che mi hai fatto nascere povero come te, ma che proprio per questo mi hai dato la ricchezza incomparabile di capire i poveri di potermi oggi disporre a servirli».

Ragazzino sveglio, finite le elementari, viene mandato in seminario, prima ad Ugento poi a Molfetta. Teologia la studia a Bologna, al seminario di studi sociali dell’ONARMO (Opera Nazionale di Assistenza Religiosa e Morale degli Operai) che preparava preti che si cimentavano nella realtà delle fabbriche e nella pastorale del mondo operaio. L’8 dicembre 1957 è ordinato sacerdote e dopo aver conseguito la Licenza presso il seminario di Vengono a Milano (la laurea la conseguirà nel 1965 alla Lateranense) viene nominato maestro dei piccoli seminaristi di Ugento. Nei successivi 18 anni – prima come prefetto, poi vice rettore e infine rettore – sarà capace di mediare tra severità del metodo ed esigenze giovanili.

Alla fine degli anni settanta è nominato parroco di Trifase, una cittadina salentina con quindicimila abitanti: l’esperienza in parrocchia gli fa toccare con mano l’urgenza dei poveri, dei disadattati, degli ultimi. Scriverà: «Quello che ho vissuto da parroco non lo potrò scordare mai. Stare in mezzo alla gente, chiamare i parrocchiani per nome, entrare nelle loro case in momenti di festa e di dolore, vivere con loro il gaudio esaltante della domenica, progettare con loro i momenti forti della vita parrocchiale, avere a che fare con i poveri con nome, cognome e codice fiscale, profumar di popolo… è stata l’esperienza che ho vissuto nella stagione più felice della mia vita».

Una stagione che non dura molto perché, quasi subito, gli viene chiesto di diventare vescovo. Per due volte rifiuta, la terza scrive al Papa una bellissima lettera ([…] «La mia accettazione, oltre che carica di incertezze, è anche permeata di molta tristezza: mi fa così soffrire il pensiero di dover lasciare questo popolo che ho amato e servito per tre anni, che riterrei una grazia straordinaria del Signore poter continuare a lavorare nella mia parrocchia ancora per qualche tempo». […]) che non impedisce però l’arrivo della nomina ufficiale.

Ordinato vescovo il 30 ottobre 1982, fa il suo ingresso nella diocesi di Molfetta – Ruvo – Giovinazzo – Terlizzi il 21 novembre dello stesso anno. Monsignor Mincuzzi, nell’omelia, pronuncia parole che si dimostreranno profetiche: «Per quanta mitezza, discrezione ci potrà mettere, Tonino dovrà predicare le beatitudini, i paradossi evangelici, la condanna non degli uomini ma dell’egoismo, fonte degli altri peccati. E dovrà condannare la guerra, la violenza, la riduzione a numero degli uomini, figli di Dio, e le possibilità di manipolarli, di farne massa. A causa dell’opposizione cieca, spietata, crudele, sarà anche malvisto e non avrà la condivisione affettuosa, consolatrice di tutti coloro che gli appartengono…».
 
Contempl-attivi, in nome del Vangelo
 
Nel 1985 col consenso della Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana viene chiamato a succedere a Mons. Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, nella guida di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace. Con una delle sue originali ed appropriate intuizioni linguistiche egli traccia le linee per una spiritualità impastata con la terra definendola “contemplattiva”. La beatitudine evangelica degli operatori di pace diventa ben presto il discrimine per valutare e promuovere azioni concrete, mai approssimate ma sempre frutto di una lettura attenta della realtà. In questo senso vanno lette le sue prese di posizione nel corso di conflitti armati come quelli del Golfo e della ex-Jugoslavia, l’organizzazione della protesta contro l’ipotesi del trasferimento degli aerei F16 nella base di Gioia del Colle, la lotta contro il tentativo di sottrarre migliaia di ettari di terreno a contadini ed allevatori della Murgia barese per farne un enorme poligono di tiro, la sua appassionata adesione al cartello “Contro i mercanti di morte” che portò nel 1990 all’approvazione della Legge 185 che regola in maniera restrittiva e democratica il commercio delle armi italiane e tante altre azioni nella direzione dell’affermazione e della crescita di una cultura di pace.

Ascoltino gli umili e si rallegrino
 
Don Tonino, uomo di profezia, è stato soprattutto un uomo di fede. Era proprio in nome della fedeltà a questo Dio che egli rintracciava il Suo volto dentro i volti dei crocefissi della storia, nelle rughe di coloro che subiscono violenza e ingiustizia. Non a caso il suo motto episcopale è stato “Ascoltino gli umili e si rallegrino” perché è proprio sulla scelta degli ultimi che don Tonino ha sviluppato la sua idea di Chiesa. E reclamava, per i cristiani, il diritto alla parola e alla denuncia, contro ogni silenzio e indifferenza. Per questo, prendeva sul serio alcune scelte che riteneva dovessero essere proprie dei cristiani: prime fra tutte quella della povertà. L’accoglienza, in episcopio, per un lungo periodo, di famiglie di sfrattati, l’orgoglio con cui esibiva il pastorale di legno d’ulivo intarsiato, regalatogli dai contadini della sua terra, il desiderio di “avere a che fare con i poveri con nome, cognome e codice fiscale”, erano i segni tangibili di una verità vissuta prima ancora che proclamata.

Si capisce quindi perché don Tonino era amato dai piccoli e creava fastidio ai grandi: della politica, della cultura, perfino della Chiesa. Per molti, don Tonino è diventato familiare per una serie di gesti probabilmente “normali” per un cristiano delle origini ma che, nella tiepidezza del tempo presente, hanno corso il rischio di essere letti e interpretati come “scandalosi” e “inopportuni” per un credente, soprattutto se vescovo.
 
Al cimitero un continuo pellegrinaggio
 
Scendo ad Alessano e sosto un paio d’ore al cimitero. La tomba di don Tonino, un piccolo anfiteatro chiuso da una quinta di cipressi e tamerici, è oggi meta continua di un pellegrinaggio anonimo e devoto: giovani che lo hanno conosciuto attraverso i suoi scritti e si raccolgono a leggere i brani dei suoi libri; gruppi di parrocchie lontane che vengono a pregare e a deporre un fiore.

Accanto alla tomba è stato piantato un ulivo, simbolo della pace a lui così cara, ai cui rami pendono nastri e fazzolettoni scoloriti, lasciati come pegno di affetto da associazioni e confraternite in visita. Passano molte persone, si fermano, pregano, toccano la lastra di marmo bianco della tomba.

Al termine vado a trovare don Gigi, il parroco del paese e suo studente in seminario. Don Gigi mi porta ad incontrare Marcello, il fratello di don Tonino. «L’annuncio dell’inizio della causa di beatificazione lo abbiamo accolto con gioia», mi dice. «E’ il riconoscimento straordinario, un momento di felicità non solo per noi ma soprattutto per tutta la gente che lo ha conosciuto e gli è rimasta affezionata. Rimango sempre impressionato dalle tantissime persone che, da ogni parte d’Italia, scendono qui, a trovare don Tonino al cimitero. Molti sono ragazzi: l’hanno conosciuto unicamente attraverso i suoi testi, hanno incontrato il volto di una chiesa capace di essere fedele a Dio e all’uomo del proprio tempo. Sì, mio fratello era un credente così. La mia famiglia ha sempre guardato a lui come ad un fratello maggiore, da cui apprendere e a cui, senza problemi, suggerire».

«Cosa resta di lui?» gli chiedo. «Ho letto e riletto i suoi libri. Ogni volta vi ho trovato stimoli e provocazioni, come se ci fosse il dito di Dio. Credo che resti, in modo specifico, la sua idea di santità. Una santità feriale. Di tutti i giorni e a cui tutti siamo chiamati».