Il Parlamento è anche una questione sociale

Prendo spunto dall’indagine Demos di qualche settimana fa per dir bene dei partiti, del Parlamento e dei sindacati. In realtà l’indagine, per l’ennesima volta e senza sorpresa, classifica agli ultimi posti proprio i partiti, il Parlamento e i sindacati. La fiducia degli italiani verso queste tre istituzioni è assai bassa, bassissima.

Peccato, perché proprio questi sono i soggetti di quella filiera popolare di cui per molto tempo – dalla nascita della Repubblica e per parecchi anni a seguire – i nostri padri sono andati fieri. Perché questa filiera fronteggiava almeno due gravi mali: l’autoritarismo e l’immobilità sociale.

Parlamento, partiti e sindacati promettevano più libertà e più uguaglianza, il superamento degli ostacoli posti dalla condizione sociale familiare o dall’involontarietà del destino per dar vita ad un destino migliore: peraltro costruito non contro gli altri, ma insieme. In quest’ottica i partiti, il Parlamento e i sindacati hanno goduto di (con)senso grazie a un forte radicamento popolare, che – tra le altre cose – derivava dal fatto che il politico traducesse le questioni del sociale, della vita quotidiana. E desse vita a una democrazia collocata sul piano sostanziale.

Una democrazia che potesse garantire anche chi proviene anche dalle periferie di questo Paese, vivere una vita dignitosa, mettere a frutto il proprio talento (lavorare), contribuire al dibattito pubblico (partecipare) e – perché no – diventare un rappresentante del popolo. Una filiera popolare è così. Una filiera così consente una mediazione, un percorso ordinato.

Invece prendiamo atto che esiste una faglia che divide il politico-istituzionale – che va per la sua strada, coi suoi linguaggi, i suoi tempi e le sue pose – dal popolo – coi suoi bisogni e lamenti e con le sue potenzialità. E nel bel mezzo ci stanno appunto le istituzioni che, anziché compensare le reciproche spinte per risolvere problemi, rischiano di diventare esse stesse un problema. Perché le istituzioni – soprattutto se di natura elettiva – sembrano aver perso quella legittimità che deriva dall’assolvere una funzione politicamente e socialmente apprezzata.

Tutto questo si dica perché il dibattito sul sistema elettorale, sulla (ri)forma del Parlamento e dei partiti richiederebbe una riflessione anche sotto questo versante, non esclusivamente fondata sull’efficienza e sull’efficacia della singola istituzione, perché la questione politico-istituzionale è più profonda di quello che appare: è più sociale.

Dobbiamo capire non solo quali problemi tecnici risolvere, ma quali processi avviare per (scuserete il linguaggio) emancipare il ceto popolare e garantire che i problemi della vita quotidiana trovino nelle istituzioni un soggetto capace di dare risposte, cioè di rappresentare le necessità: di rappresentare.

E di innestare processi veri. Lo ha capito bene il Papa, quando afferma che il tempo è superiore allo spazio. Non sarà per questo che nella classifica sopra citata il Papa arriva primo. Però il suo primo posto potrebbe intanto suggerirci il fatto che chi dice le cose giuste, alla fine merita anche la nostra fiducia.

Roberto Rossini