La gabbia

Nel marzo del 2016 l’UE decide di delegare alla Turchia una parte della gestione del flussi migratori provenienti dalla “rotta balcanica”. Da quel momento sono passati 433 giorni. Giorni in cui chi si trova ancora nel “limbo balcanico” sta cercando di ridare un senso alla propria quotidianità nei campi profughi attrezzati per la situazione.

Un fotografia ce la da la nostra Silvia Maraone, che per IPSIA, assieme a Caritas Italiana e Caritas Ambrosiana sta coordinando una serie di attività di supporto alla gestione della quotidianità degli ospiti dei campi profughi in Serbia.

Riportiamo la sua testimonianza integrale, tratta dal suo blog NELLATERRADEICEVAPI.

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LA GABBIA

Pubblicato: maggio 25, 2017 in Campi profughi, Migranti, Western Balkan Route 

 

Deal done

Che nel marzo 2016 l’UE avesse fatto un accordo con la Turchia per gestire il flusso di migranti in arrivo attraverso la rotta balcanica è cosa nota. Meno noti forse i risultati sul lungo periodo che la chiusura ha creato, da una parte il ritorno a pieno regime della rotta del sud mediterraneo, con il suo carico di morte quotidiano e il suo carico di polemiche sulle ONG che l’italico e ignorante popolo italiano diffonde via social (del resto informarsi è troppo faticoso). Dall’altra parte c’è l’esistenza bloccata in terra balcanica di circa 60.000 persone. Detto così sembra un numero enorme, ed è vero, se pensiamo che ognuno di questi numeri è una persona, con una storia probabilmente di grande sofferenza alle spalle, una famiglia, un’identità e un passato. Ma sarebbe anche un numero facilmente gestibile, se solo i paesi “ricchi” decidessero che la questione migratoria è la questione del futuro ed è inevitabile. L’essere umano, così come gli altri esseri viventi da sempre nella storia del mondo, si sposta in cerca di condizioni di vita migliori e per garantire alla sua specie la possibilità di sopravvivere e non estinguersi. Per questo motivo è inutile barricarsi dietro a muri (ideologici o fisici che siano) e fare i conti con ciò che è puramente istintivo: la voglia di vivere. Per questo motivo MAI le migrazioni cesseranno ed è giusto imparare a riconoscere il diritto alla libertà, senza dividere il mondo in popoli e paesi di serie A e popoli e paesi di serie B o C, anche perchè storicamente ed economicamente parlando, i paesi di serie B o C restano lì perchè sono i paesi di serie A che hanno gli interessi a tenerceli.

Dove eravamo rimasti?

Tra queste 60.000 persone bloccate lungo la rotta balcanica, la maggioranza (circa 50.000) si trova in Grecia, paese che nonostante la rotta sia chiusa ha visto dall’inizio del 2017 l’approdo di 6.421 persone (40% bambini, 21% donne, 42% uomini di cui il 42% dalla Siria, e a seguire Iraq e Afghanistan).

In Serbia ci sono ufficialmente 7.364 persone suddivise in 18 campi gestiti dal Commissariato per le migrazioni.  43% sono minori, 42% uomini, 15% donne. Vengono sopratutto dall’Afghanistan 57% , Iraq 19% , Pakistan 13%, Siria 6% . Il grosso dei siriani che ha viaggiato sulla rotta si è fermato in Grecia, perchè le procedure per il ricollocamento negli altri paesi EU sono più veloci che non dalla Serbia, altrimenti la percentuale sarebbe molto più alta.

La gabbia

Da quel 18 marzo 2016 sono passati 433 giorni (data di oggi). Quattrocentotrentatre.
In molto meno tempo si viene al mondo, ci si sposa, si festeggia il compleanno, si brinda alla casa nuova e al nuovo lavoro, si va alle feste, ci si commuove al cinema o a un concerto, ci si laurea… si vive, in poche parole, con un discreto margine di libertà, fisica ed emotiva.

In questo anno e qualche mese le persone hanno vissuto dapprima nella vana speranza che le frontiere riaprissero, accalcandosi ai confini dell’Ungheria e vivendo in condizioni disumane nei boschi, senza cibo e senza acqua. Quindi hanno provato più volte, illegalmente e spendendo migliaia di euro a testa a superare i confini, da tutte le parti: Ungheria, Croazia, Romania, Bulgaria. E infine, si sono arresi.

Se negli scorsi mesi visitando la rotta avevo visto persone con un barlume di speranza negli occhi e la voglia di farcela, oggi, dopo 433 giorni nei campi profughi in Europa, io vedo solo adulti sconsolati che cercano di capire cosa fare di sé e della propria esistenza senza darsi una valida risposta. Per molti di loro non esiste nemmeno la possibilità di tornare indietro, le bombe restano comunque un deterrente valido.

I giorni sono tutti uguali in un campo profughi, specialmente se situati in posti un po’ isolati e senza avere particolari risorse economiche. Ci si sveglia, e qualcuno decide cosa mangerete e quando. Il secondo momento fisso  della giornata è il pranzo. Anche qui, qualcuno cucina qualcosa per voi, decidendo sapore, gusto, quantità e orario. Il terzo momento fisso della giornata è la cena. Vedi sopra.

Tutte le mattine vi sveglierete e vedrete le stesse persone, con le quali vivete da 433 giorni. Dopo 433 giorni non sapete più che cosa raccontare. I ricordi del vostro paese e della vostra famiglia vi fanno male. Parlate di quello che non avete, di quello che facevate, di quello che vorreste fare, di quello che vorreste mangiare, ma oramai lo avete già detto e ridetto chissà quante volte e chissà quante volte avete sentito la stessa storia degli altri.

Naturalmente non potete scegliere come vestirvi, dipendete dagli aiuti che sono stati mandati da qualche sconosciuto in giro per il mondo che ha pensato bene che una maglietta bucata e unta un profugo se la metterebbe lo stesso, perchè tanto non ha altro. Quindi non va bene per te, che la vuoi buttare, ma pensi che vada bene per un altro essere umano che non ha scelta.
Le scarpe sono preziose! Vengono distribuite raramente e spesso non sono mai in buone condizioni, ma quelle e i vestiti sono un bene da preservare nonostante le macchie e i rattoppi, anche perchè non avete altro e quello che vi siete portati nello zaino quando siete partiti probabilmente lo avete abbandonato durante il viaggio.
Non potete muovervi, o meglio, potete farlo e andare nei villaggi attorno. Per farlo dovete chiedere un permesso e rientrare prima delle 21, dovete camminare per qualche chilometro (e consumare le vostre già malridotte scarpe) oppure prendere un taxi (e spendere i pochi soldi che avete) e poi spendere altri soldi nel solito e unico villaggio che c’è nelle vicinanze per mangiare cibo che non vi piace perchè il gusto è totalmente diverso dal vostro e vi manca il sapore del cibo di casa o per comprare qualche vestito o qualche cosa che potrebbe vagamente piacervi.

Non avete libri, e se ne avete li avete già letti e riletti. La connessione internet c’è, ma è lenta e la dovete dividere con altre centinaia di persone. Nonostante questo, come dei lobotomizzati, vi attaccate a internet, a facebook, a youtube per passare il tempo.
Non avete un vostro bagno e tantomeno non avete la vostra privacy, ma avete lo stesso imparato a fare l’amore in una camerata o in una stanza da 8 persone (se siete fortunati) senza farvi sentire troppo. Alcune donne restano incinte e nasce una nuova vita in questo limbo, una novità nella monotonia di tutti i giorni. Nascono coppie nuove anche di diverse nazionalità, del resto la scelta è limitata alle solite persone che vivono con voi. E del resto l’amore non fa differenze.

Infine, quando finalmente si spengono le luci, non riuscirete ad addormentarvi. Avrete pochi ricordi della solita giornata che è appena trascorsa e dei soliti discorsi che avete fatto e delle persone che avete visto, perchè sono sempre le stesse cose. Forse avrete dei ricordi delle bombe che cadevano, della traversata nel mare sul gommone con l’acqua che entra dal fondo e le urla dei bambini nelle orecchie. Vi chiederete dove siano i vostri figli, i vostri fratelli e sorelle, madri e padri, mariti e mogli. Qualcuno attorno a voi sta russando, qualcuno piangendo. Non c’è silenzio e non c’è nemmeno buio perchè ci sono le luci di sicurezza accese.

Non riuscirete a dormire sino a quando la stanchezza non vi sopraffarà o sino a che le gocce che avete preso non vi faranno crollare, sino alla solita sveglia, nel solito posto, con le solite persone.

Rompere

Ecco, a chi mi chiede cosa faccio io oggi in Serbia (ma potrei essere in Grecia, come in Libano o chissà dove altro nel mondo) con la mia ONG, rispondo che giochiamo a pallavolo, a calcio e anche a rugby, che facciamo disegnare i bambini, che chiacchieriamo con le persone del più e del meno, che facciamo corsi di inglese e serbo, balliamo, cantiamo …

Noi, semplicemente, rompiamo.

La monotonia, la solitudine, la noia. Rompiamo le sbarre invisibili delle gabbie.

O almeno, ci proviamo.