Il lavoro aumenta ma la povertà non diminuisce

I dati Istat sul mercato del lavoro a novembre fotografano una situazione in miglioramento, anche se crescono in modo sostenuto gli impieghi precari. Il tasso di disoccupazione cala all’11%, al livello più basso da settembre 2012, ma resta il peggiore in Europa dopo Grecia e Spagna.

Sono dati che piombano sulla campagna elettorale con interpretazioni diverse a seconda degli schieramenti. “Il numero di occupati ha raggiunto il livello più alto da 40 anni – ha detto il premier Paolo Gentiloni, a proposito dello sforamento di quota 23,18 milioni, il dato più alto dall’inizio delle serie storiche – si può e si deve fare ancora meglio. Servono più che mai impegno e serietà, non certo una girandola di illusioni”.

“In campagna elettorale contano i risultati – ha detto l’ex premier Matteo Renzi – non le promesse. Ci sono 1.029.000 posti di lavoro in più dal febbraio 2014. Il JobsAct funziona”. Dello stesso parere è Confindustria, che chiede di non smontare le riforme. Dal M5s e da LeU, invece, si sottolinea la crescita del lavoro a termine rispetto a quello a tempo determinato: “il vero record è la precarietà” dice Pippo Civati. “A crescere sono ormai solo i posti di lavoro a termine”, evidenzia il portavoce M5s in Commissione Lavoro. Anche la leader Cgil, Susanna Camusso parla di precarizzazione del lavoro con un “ennesimo boom dei contratti a termine”.

Aspetti negativi (crescita dei lavoratori a termine 9 volte più forte di quella dei dipendenti a tempo indeterminato, tasso di occupazione penultimo in Europa) e positivi (record degli occupati, +345mila in un anno, record del lavoro femminile e calo della disoccupazione giovanile) rischiano di perdersi nella contesa politica, rischiando di far passare in secondo piano un altro aspetto.

Se il lavoro aumenta, perché la povertà non diminuisce? Una prima, importante risposta, è ancora nei dati Istat: mentre il numero degli occupati è salito oltre i livelli pre-crisi del 2008, quello delle ore lavorate è ancora inferiore a quei livelli. Quindi, si lavora di meno e si guadagna di meno.

L’Alleanza contro la povertà in Italia ha presentato i risultati del monitoraggio “Rapporto di Valutazione dal Sia al Rei” in Emilia Romagna, una Regione dove il contrasto alla povertà sta dando buoni risultati. Ebbene, il 65% dei nuclei familiari che hanno fatto ricorso al sostegno economico aveva almeno un componente con regolare lavoro.

L’Istat ci ha detto che si stanno ingrossando le fila dei working poors, tute blu che lavorano ma non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. In estate, la Banca d’Italia aveva suggerito un incremento dei salari per aiutare i consumi e indirettamente il Pil. Ma la trasmissione tra aumenti in busta paga e maggiori consumi non è automatica. Questa è la dimostrazione che non basta lavorare per far crescere l’economia.

Se si vuole veramente incidere sulla povertà occorrono anche interventi sociali veri e propri, come il Piano per la riqualificazione delle periferie. Insomma, ogni tanto vale la pena ribadire che il sociale ha bisogno di essere sostenuto in sé e per sé, e non come un derivato dell’economia.

Roberto Rossini