Charles de Foucauld, a cento anni dalla morte

Articolo di: Daniele Rocchetti, responsabile nazionale Vita cristiana Acli

Un soldato dell’esercito francese, giovane e sregolato

“Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?” chiede, nel Vangelo di Giovanni (1, 46), Natanaele a Filippo. Se lo chiede, sul finire del diciannovesimo secolo, anche Charles de Foucauld, un giovane sregolato dell’esercito francese, di stanza in Nord Africa.  Lo attirano la vita nascosta di Gesù, la sua estrema semplicità, il suo confondersi con gli altri. Decide di cambiare vita e di porsi alla sequela del Signore, riconosciuto presente nell’Eucarestia.

Di fronte al Santissimo, Charles imparerà a sostare ore e ore. Egli vede nei poveri l’icona vivente di un Dio fatto povero. “Fratello di tutti”, “fratello universale”, Charles decide di lasciare Nazareth, dove abita tre anni all’ombra del monastero delle Clarisse, per partire verso il Sahara “per continuare la vita nascosta di Gesù di Nazareth”. L’obiettivo non è di stare “in disparte” o “al di sopra” ma “dentro la vita”. Ordinato prete, si mette a servizio dei Tuareg, una popolazione nomade che abita nel deserto. Impara la loro lingua. Risponde alla logica dell’espansione coloniale cercando il valore delle altre culture. All’attività missionaria, che spesso si accompagna a superiorità e potere, mostra che, in nome del nascondimento di Gesù, si può scegliere di essere ultimo tra gli ultimi.

“Se il chicco di grano non cade a terra e non muore, resta solo. Io non sono morto, per questo sono solo. Pregate per la mia conversione, di modo che, morendo, io possa dare più frutti…”.

Charles muore solo e senza eredi spirituali

Quando esattamente cento anni fa, l’1 dicembre del 1916, Charles muore in modo anonimo, ucciso da una banda ribelle, nessuno ha raccolto la sua eredità e nulla fa presagire che i propositi, messi per scritto, potessero davvero essere vissuti e continuati.

Charles muore solo, ma “Il suo seme, caduto a terra porterà molto frutto perché, come il sangue dei martiri, diventa seme di una moltitudine di cristiani che riconosceranno nei lineamenti del suo volto spirituale le tracce del somigliantissimo a Cristo”. (Enzo Bianchi).

Ciò che fratel Charles desidera ardentemente da vivo (“Quel che sogno è qualcosa di molto semplice, di non molto numeroso, qualcosa come quelle piccole semplici comunità dei primi tempi della Chiesa”) prende corpo pochissimi anni dopo la sua morte, già all’indomani della pubblicazione – nel 1921 – della biografia scritta da René Bazin, un libro che sulla gioventù francese produce una vera scossa spirituale. Sarà però René Voillaume, il prete parigino esperto di arabo e di islamistica, autore di un testo – “Come loro” – di spiritualità sulla vita di fratel Charles che influenzerà la vita di migliaia di preti, suore e laici a dare forma ad un progetto audacissimo: contemplativi fuori dai monasteri che soli apparivano contenere quella separazione e quel silenzio ritenuti necessari al raggiungimento dello stato contemplativo. Un albero dai molti frutti alimentato dalla testimonianza di donne e uomini (“piccole sorelle” e “piccoli fratelli”) posti dentro gli intrecci più quotidiani e ordinari dell’esistenza; desiderosi solo di “gridare il Vangelo con la vita”, preoccupati di vivere una fedeltà profonda agli uomini del loro tempo e all’ambiente che Dio ha dato loro da amare.

Dunque, una vita contemplativa nel cuore del mondo, non separata dalle grate dei monasteri, ma pienamente condivisa con gli uomini e le donne del nostro tempo, a partire dai luoghi di sofferenza della nostra umanità.  Piccole fraternità che vivono il più semplicemente possibile, con un lavoro manuale che può cambiare secondo tempi e culture in quartieri poveri o popolari. Il cuore della relazione con Gesù, che diventa il cuore della relazione con gli altri, è l’amicizia, offerta e ricevuta. Lo chiedeva Magdeleine Hutin, straordinaria fondatrice delle piccole sorelle di Gesù:
“Prima di essere religiosa sii umana e cristiana in tutta la forza e la bellezza di questa parola”.

Una nuova idea di missione

Anni fa, quando avevo incontrato Arturo Paoli, anch’egli piccolo fratello, gli avevo chiesto dove stava l’attualità di Charles de Foucauld. Mi rispose così:

“Charles è stato un missionario che ha vissuto tutta la sua vita sacerdotale con i mussulmani senza convertirne uno. Ha assimilato la loro cultura, interessandosi profondamente alla loro vita, li ha amati profondamente ed è stato amato profondamente, in un certo senso facendosi “uno di loro”. Questo mi sembra molto esemplare nel mondo attuale dove dobbiamo abituarci a convivere con grande rispetto con persone di cultura e fede diverse dalla nostra e dove spesso, invece, si vuole strumentalizzare la fede per motivi politici. Il primo francobollo che la Repubblica Algerina ha emesso portava l’immagine di Charles de Foucauld, come a voler sottolineare che, veramente, egli è stato un “fratello universale””.

Gli ribadii che questo mette in discussione l’idea che normalmente abbiamo di “missione” e Arturo mi rispose:

“Basta leggere il capitolo 10 del Vangelo di Luca. Si deve andare tra i poveri come amici, senza nulla, e farsi accogliere. Bisogna invertire la posizione: non sono io, ricco, che vado al povero, ma devo andarci povero, alla pari con lui. Sì, è il concetto stesso di missione che bisogna cambiare. Se c’è una disuguaglianza di partenza non si può mai creare una vera amicizia”.

A Maria Chiara Ferrari, amica di lunga data e da diversi anni responsabile internazionale delle piccole sorelle di Gesù, ho chiesto invece la specificità della loro scelta:

“Per noi, piccole sorelle di Gesù, sta certamente nel mistero di Betlemme. Che vuol dire un modo di essere nel mondo che privilegia più la relazione che la gestione, il volto più che il risultato. Significa stare dentro le relazioni a partire dalla piccolezza, assumere e farsi attraversare da minorità. Riconoscere la fragilità di ciascuno ma anche di noi stessi, della chiesa, del mondo. Il mistero di Betlemme racconta di un Dio che, nel farsi bambino, accoglie in sé tutta la debolezza dell’essere uomo ed è in questo stato d’impotenza che salva il mondo, con la sola forza dell’amore.  Come Dio facendosi uomo rinuncia ad ogni forma di potere, così anche noi siamo invitate a credere con Lui che solo l’amore può essere la strada che porta alla vita”.

La normalità della vita come luogo dell’annuncio

Ha scritto il priore di Bose che “ci sono santi la cui vicenda e testimonianza è determinante al punto che dopo di loro non si possono più vivere alcune realtà cristiane come prima. Come già dopo san Francesco, anche dopo fratel Charles ogni vita religiosa e ogni forma testimoniale nella chiesa non può più essere vissuta come prima: Charles de Foucauld ne ha mutata la forma alle radici”.

Come è stato possibile questo? Qual è la ragione dell’attualità e del fascino, mai tramontati, di Charles de Foucauld e delle fraternità di piccoli fratelli e delle piccole sorelle? Come possono essere significativi per una chiesa occidentale alle prese con l’urgenza dell’evangelizzazione, i problemi di visibilità e di influenza, alla ricerca, a volte affannosa, del riscontro delle piazze? Certo, De Foucauld e le esperienze che a lui si rifanno ci hanno restituito un’immagine di carne del nostro Dio. Hanno liberato Nazareth dalla prigione oleografica e l’ha restituita ai sandali di Gesù, al corteo dei santi.  Ma questo non è ancora sufficiente.

Forse la chiave di volta ce la fornisce mons. Pierangelo Sequeri quando scrive:

“Il punto non è tanto quello della ‘durezza’ dell’ascesi richiesta, quanto piuttosto quelli di una imitazione ‘reale’ di Nazareth: che deve trovare le condizioni del proprio rigore nella normalità del contesto in cui quelle condizioni sono già date come umane, e non artificiosamente cercate e ricostruite come religiose. In quelle condizioni infatti il “piccolo fratello universale”, si insedia come il suo “beneamato fratello Gesù”, perché uomini e donne vi sono già insediati; perché esse sono la loro vita quotidiana, l’orizzonte del loro sguardo sul mondo, sulle cose, sui rapporti sociali, sulla vita, sugli affetti, sulla religione medesima. L’insediamento in quelle condizioni raffigura esemplarmente, nel suo punto più basso e nascosto, e perciò anche più radicale ed evidente, la comunione di Dio con l’umanità dell’uomo, il senso di una redenzione che annulla ogni pregiudiziale distanza mediante l’incarnazione…”.
 
Come a dire che la forza di Charles de Foucauld sta a indicare a tutti la normalità della vita come il luogo della fede cristiana e dell’annuncio evangelico. Nel nome dell’incarnazione, significa porre  l’evangelizzazione dentro il feriale dell’esistenza, custodendo nell’ordinario il riferimento cristologico della imitazione/sequela: “la stessa vita di Nostro Signore” Gesù e cioè “l’esistenza umile e oscura di Dio, operaio di Nazareth”…

Altro che autoreferenzialità della comunità cristiana!

“La nuova evangelizzazione che alla Chiesa è chiesto di affrontare, comporta in effetti anche il coraggio e l’umiltà necessarie per realizzare una nuova semplicità del contatto umano con Dio, capace di neutralizzare l’ecclesiocentrismo devoto che fissa e polarizza a tutt’oggi gli standards della pastorale religiosa e della missione cristiana”.

Ne saremo capaci?