Sul decreto Sud la politica rimanga vigile

Col Decreto Sud, approvato proprio martedì 1° agosto, il Parlamento torna a occuparsi della parte più debole del nostro Paese. Nel provvedimento sono previste agevolazioni in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. In particolare si prevede un finanziamento fino a 1.250 milioni di euro dedicati ai nuovi giovani imprenditori under 35, con la misura “Resto al Sud” e 50 milioni di euro per favorire gli imprenditori agricoli under 40.

Qualche giorno fa, l’economista Emanuele Felice scriveva che:

“Il Mezzogiorno è ormai la più grande area sottosviluppata di tutta l’Europa occidentale. Con i suoi 20 milioni di abitanti è due volte la Grecia, il doppio del Portogallo. Fino a non molto tempo fa vi erano ampie regioni della Spagna e del Regno Unito, della Germania, in condizioni paragonabili al nostro Sud. Ora non più”.

Il nodo vero, ancora una volta, è lo sviluppo economico nazionale, per il quale il Mezzogiorno deve essere un’opportunità, calibrando l’intensità e la natura degli interventi per il Sud. Nella fase più recente il governo era intervenuto in maniera decisa a favore delle imprese meridionali, mettendo in campo una batteria di strumenti per agevolare la crescita del Mezzogiorno. Terminata nel 2015 la fase di accelerazione della spesa pubblica legata alla chiusura della programmazione dei Fondi strutturali 2007-2013, il 2016 aveva registrato una netta contrazione della spesa pubblica, che aveva toccato nel Sud il punto più basso della sua serie storica, appena 13 miliardi, pari allo 0,8% del Pil.

La Svimez, che nei giorni scorsi aveva presentato le anticipazione del suo rapporto annuale, individuava per il rilancio del Mezzogiorno la creazione delle Zes, le zone economiche speciali, ossia aree geografiche create per attrarre maggiori investimenti stranieri. Il decreto del governo ha stanziato 200 milioni di euro per lo sviluppo di queste aree. Basteranno? In teoria, potrebbero.

Certo, la strada da fare sarà lunga e faticosa, perché la lunga fase di crisi tra il 2008 e il 2015 ha ampliato ulteriormente il divario tra Nord e Sud, anche se si segnalano timidi segnali di risveglio. Negli ultimi due anni, infatti, lo sviluppo delle regioni del Mezzogiorno è risultato superiore di quello del resto del Paese. Questo, però, non è stato sufficiente a disancorare il Sud da una spirale in cui si rincorrono bassi salari, bassa produttività, bassa competitività, ridotta accumulazione e in definitiva minor benessere. Se il Mezzogiorno proseguirà con gli attuali ritmi di crescita, afferma il rapporto Svimez 2017, recupererà i livelli pre-crisi nel 2028, 10 anni dopo il Centro-Nord.

Negli ultimi 15 anni, al netto degli stranieri, la popolazione meridionale è diminuita di 393 mila unità, mentre è aumentata di 274 mila nel Nord. È come se una città di medie dimensioni si fosse trasferita dal Sud al Nord. Negli ultimi 15 anni sono emigrati dal Sud 1,7 milioni di persone, a fronte di un milione di rientri, con una perdita netta di 716 mila: nel 72,4% sono giovani entro i 34 anni, 198 mila sono laureati.

Ragazzi che si sono formati nelle scuole del Sud e che nelle loro terre non hanno potuto avviare una carriera professionale per mancanza di opportunità. Andando a sviluppare le proprie competenze in aree già di per sé più avanzate. Resto al Sud si chiama la misura che intende combattere l’emigrazione. Anche la politica, però, resti al Sud e soprattutto resti “sul pezzo”.

Roberto Rossini