V Domenica di Pasqua

Domenica 29 Aprile 2018 – Anno B

Parola del giorno: At 9,26-31; Sal 21; 1 Gv 3,18-24; Gv 15,1-8

 

DAL VANGELO SECONDO GIOVANNI 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

 

 

COMMENTO AL VANGELO: ‘’Rimanete in me’’

a cura di padre Davide Carbonaro, accompagnatore spirituale ACLI Roma

L’annotazione che l’autore di Atti riporta a riguardo della  “Chiesa che era dovunque in pace” mi sorprende dopo il racconto delle trame e dei sospetti su Paolo che veniva temuto dai fratelli di Gerusalemme, e a buona ragione, ostacolato dai greci che cercavano di ucciderlo. Ma che pace viveva la Chiesa? Non certo quella dei compromessi, ma quella del Risorto che prende per mano come fa Barnaba con Paolo e sconfigge ogni ostacolo con l’autorevolezza della Parola: “Predicava apertamente nel nome del Signore”. Questo vale anche per la Chiesa del nostro tempo, nonostante le fatiche, le persecuzioni, gli scandali, occorre rimanere aggrappati non all’istituzione che passa, ma alla Parola che resta come guida sicura e garanzia di Salvezza. A volte come Paolo la Chiesa è quel tralcio potato che deve essere innestato in Cristo per avere vigore e portare frutto.  Questo rassicura il cuore che non ci rimprovera nulla se camminiamo nella piena fiducia in Dio osservando la sua Parola. Quante volte sentiamo che la crisi colpisce chi vive insieme dopo un po’ di tempo perché la noia, o l’immobilità della relazione preclude ogni dimensione di apertura e creatività. Conflitti, anoressia delle emozioni, la stessa autosufficienza, chiudono la strada alla fecondità del mondo relazionale. Così, nel nostro tempo in cui riemergono paure per le differenze, per lo straniero, per diversità culturali e tradizionali, la “comunione” diventa atteggiamento quanto mai attuale e profetico. Gesù segnala attraverso l’immagine della vite, la feconda proposta del “rimanere” che fonda la comunione dei discepoli con il Maestro e fra di loro. Il rimando all’Eucaristia e al mistero della consegna del Maestro di Nazareth, è evidente. In effetti, vite e tralci rappresentano il segno di una forte  unità purché gli uni rimangono attaccati all’altra che è all’origine della vitalità e fecondità. Così l’immagine motiva l’insistenza sul verbo “rimanere” che ritorna volentieri sulle labbra di Gesù; richiamo all’unità, mentre i discepoli faranno esperienza della dispersione e confusione (Cf. Gv 18,8-9). L’uso figurato della vigna rimanda al linguaggio sponsale dell’Antico Testamento e alla benedizione divina dei tempi messianici. “Io sono la vite, voi i tralci”. L’immagine ricalca il mistero dell’incarnazione: il vignaiolo si fa vite, il Verbo si fa carne, il Creatore accoglie in sé la creatura. Dio in me! (Cf Gv 1,14). Sta qui la forza del verbo rimanere-dimorare. D’altro canto è Gesù che detta le condizioni per il dimorare del discepolo: “Rimanere nell’amore e osservare i comandamenti”. E’ l’amore concreto con il quale egli ci ha amati per primo e sino alla fine. La linfa non si vede, ma c’è. I frutti sono visibili e sono il risultato della continua e feconda comunione tra il tralcio e la vite. Gesù non esclude dalle sue parole la possibilità che il flusso di comunione intima tra la vite e il tralcio si interrompa: il tralcio che comunque è in lui, non porta frutto (Cf. Gv 15,6). Si può essere irrorati continuamente dall’amore, ma rimanere in se stessi, nelle proprie rigidità. L’immobilità è sinonimo di morte. In effetti, si può essere apparentemente discepoli di Gesù senza che in noi circoli la sua vita divina, il suo amore. Come rimanere aggrappati a questo amore che dona tutto e chiede tutto? E semplice. Fare accadere in noi ciò che avviene in una relazione: l’ascolto, il dialogo, l’accoglienza, il dono reciproco, l’amicizia. Così la linfa vitale dell’amore di Dio feconda le nostre fragilità e diventa frutto prezioso, nutrimento per gli altri. Nel Figlio siamo destinatari ed eredi di tutti i beni che possiamo domandare o sperare. Il Padre di Gesù Cristo attende la nostra preghiera la conformità, l’ assenso a quanto ci vuole donare. In fondo, non siamo noi a chiedere, è Dio che ci chiede di amarlo e ci lascia liberi di realizzare in noi il suo amore. Domandare ci fa uscire da noi e permette di andare incontro all’Altro, si tratta del primo gradino per sperimentare l’amore. Così la preghiera del cristiano è una scala per raggiungere il cuore di Dio ed il cuore del fratello. Spesso si fatica, come in ogni ascesa, perché appesantiti dal fardello del pregiudizio, dalle oscure presunzioni che non rendono trasparente l’amore e lo impigliano in tante insicurezze e fragilità. E’ la voce di Gesù che solleva in alto la nostra domanda rinnovandola con la linfa vitale del suo amore. In questo percorso il discepolo riflette la gloria del Figlio che è la stessa gloria del Padre e realizza in modo maturo le parole e le opere di Gesù nella sua esistenza.

 

P. Davide Carbonaro OMD