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È finito un mondo. Per sempre. Da dove ripartire? Se fosse il tempo di un Sinodo?

La Chiesa deve rivivere, non sopravvivere 

Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla vita cristiana

Potare 

Sono in molti a scrivermi dopo gli ultimi due articoli pubblicati attorno al tema delle “chiese vuote”. Condividono l’analisi ma chiedono anche di indicare come e da cosa ripartire.  Perché – lo abbiamo capito in queste settimane dove sono riprese le eucarestie comunitarie  – non basta tornare a celebrare per pensare di aver risolto tutto.  

Ciò che è accaduto non è una parentesi, neanche per la Chiesa.  

È uno scuotimento radicale, che tocca nel profondo. Che non lascerà come prima.  E dunque cosa fare? Un amico mi suggerisce un’azione: “potare”. Quello che è successo è un’opportunità unica. Bisogna smetterla – come Chiesa – di portarsi sempre dietro tutto. Di sentirsi indispensabili sempre, ad ogni costo.  

Occorre discernere, scegliere e custodire l’essenziale della fede cristiana.  

Dunque: togliere quello che abbiamo confuso come prioritario e necessario ma che non lo era. Potare per dare evidenza a ciò che conta davvero, custodirlo e farlo crescere. 

La quarta ipotesi. Una coraggiosa aurora 

Anni fa mi capitò di incontrare per un’intervista Maurice Bellet, un nome che, immagino, dice poco ai più. Eppure Bellet – prete, filosofo, teologo – è stato uno dei più lucidi e raffinati interpreti della sfida che la modernità pone alla fede cristiana. Una sfida che pare rendere  

la Chiesa incapace di connessione con la vita delle persone, specie le più giovani  

e dunque apparire nella cultura umana come la rimanenza di un mondo che si disfa.  La quarta ipotesi sul futuro del cristianesimo  è un testo pubblicato in Italia da Servitium nel 2003 dove Bellet ragiona, da par suo, sul futuro della Chiesa che egli riassume in quattro possibili parabole.  

La prima è la sua scomparsa pura e semplice, senza clamore, una morte per consunzione. La seconda è la sua dissoluzione, la trasformazione definitiva in “religione civile”, in un insieme di valori morali, senza la novità dirompente, la forza rivoluzionaria del Vangelo. In questa seconda ipotesi, Gesù è considerato un maestro spirituale fra i tanti, non di più. Nella terza ipotesi, il cristianesimo continua: si tenta di conservare, restaurare, adattare, conciliare chiusure reazionarie e spinte progressiste, rinunciando, però, senza volerlo, alle domande radicali sul senso della vita e della morte.  

La quarta ipotesi, che è quella scelta da Bellet, prevede un altro scenario: vi è qualcosa che  finisce inesorabilmente ed è un sistema religioso, debitore, più di quanto si pensi, di un modello di società nato con la prima età moderna, tra Cinque e Seicento.  

Un mondo finisce e qualcos’altro nasce, grazie alla novità del Vangelo.  

Abbandonare vecchi schemi e strutture e inventarne di nuove 

Ma questo tempo inaugurale, aurorale, richiede coraggio e creatività, il coraggio di abbandonare vecchi schemi e vecchie strutture e inventarne di nuove. “L’Evangelo – scrive Bellet – può apparire come evangelo, cioè la parola, appunto, inaugurale che apre lo spazio di vita? Il paradosso è grande, perché l’evangelo è vecchio… Ma forse il tempo delle cose capitali non è retto dalla cronologia;  forse la ripetizione può essere ripetizione dell’inaudito, così come, dopo ogni nascita di un uomo è una ripetizione banale e, ogni volta, l’inaudito”. 

Le priorità pastorali 

È tempo, dunque, di grande immaginazione. Perché non è il Vangelo a essere messo in scacco ma, piuttosto, la modalità con la quale noi cristiani fino ad ora lo abbiamo vissuto e comunicato.  

Non è la fine della fede ma di una certa fede.  

E forse, anche se oggi a noi non lo pare, è una fortuna. Ecco perché siamo chiamati a discernere tra sostanza e forma, tra consuetudini e verità, come un pellegrino che deve compiere un lungo cammino e che deve mettere nella sua bisaccia tutte e solo le poche cose essenziali. La Parola, la cura liturgica, la formazione, la costruzione di una chiesa di popolo. Se i preti investissero tempo, studio, energie e risorse in queste priorità avremmo una Chiesa diversa. Se i laici imparassero a custodire la passione per il Vangelo, a prescindere dalle paure o dalle pigrizie dei loro preti, cammineremmo con altro passo.  

Comunità fondate sulle relazioni e non sulle strutture 

Un’ultima cosa.  Quello che è certo è che stiamo velocemente camminando verso una nuova forma di cristianesimo. Un cristianesimo per scelta e dunque un cristianesimo di minoranza. Dove si giungerà alla fede per conversione e per convinzione. Piccole comunità fondate più sulle relazioni che sulle strutture, in una pastorale più di proposta che di conservazione. Non spaventate di essere una “parte”, neanche la più consistente, del “tutto”, in una società sempre più “plurale”, segnata sia dalla crescita esponenziale degli “indifferenti”, sia dal timido ma costante affacciarsi nei nostri territori dei “differenti”, uomini e donne che credono in un Dio diverso dal Dio di Gesù Cristo.  

Una Chiesa, quella di domani, che papa Francesco continua a delineare come una Chiesa fedele allo “stile” di Gesù  e dunque che non si presenta come una istituzione detentrice di un sistema di dogmi da insegnare al mondo ma spazio in cui le persone trovano la libertà di far emergere la presenza di Dio che già abita la loro esistenza.  

Una fede critica 

Quando incontrai padre Bellet alla fine dell’intervista gli chiesi che ruolo poteva avere la Chiesa oggi. Mi rispose così:  “La Chiesa è prima di tutto il luogo della comunione. Io vedo la Grande Eglise come l’anti-setta, il luogo della fede intera. Perché la Chiesa su cose secondarie, e a volte anche importanti, pare rimanere sulla difensiva, ma sull’essenziale ha l’istinto giusto, ha grandi tradizioni che possono essere usate dall’uomo di oggi: Francesco di Assisi, Ignazio di Loyola, Teresa di Lisieux sono coloro che nella loro epoca hanno contribuito, ciascuno a proprio modo, a un nuovo inizio.  

La Chiesa non può ridurre la durezza scoscesa del Vangelo e non può escludere nessuno. Forse è il momento di accettare una fede critica. La critica non è per forza “collaborazionismo con il nemico”, nella sua forma migliore è un lavoro di verità”. 

Una proposta 

Vedo attorno, soprattutto tra i preti e gli operatori pastorali,  molta fatica e scoraggiamento. Non è forse venuto il tempo di un Sinodo diocesano per un confronto comunitario attorno a questo improrogabile “nuovo inizio”? 

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