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Quando nascere, vivere e morire dipende ancora dal luogo in cui vieni alla luce

 È dura, tanto dura da rischiare che parlare di resilienza e di relativi piani rischia di non essere compreso più dalla popolazione.

È ancora più dura vedere inerti che la condizione dell’infanzia e delle giovani generazioni siano ancora falsamente prioritarie nell’agenda del Paese; falsamente, perché se ne parla spesso, ma domina contestualmente la cultura della sostanziale indifferenza travestita dalla logica della trasversalità delle politiche, sul presupposto che tutto quello che si fa tocca i minori e i giovani, indi ogni investimento, pur non citandoli, li riguarda.

Se il tasso di natalità non fosse da tempo ai minimi storici, se la disoccupazione giovanile fosse irrilevante, se la voglia di fare famiglia aumentasse, ecc. potremmo ritenere questa tesi convincente. Ma non è così!

Infatti siamo in pieno inverno demografico, il sistema previdenziale è da decenni in disavanzo, i giovani non trovano lavoro, i posti nido sono atavicamente insufficienti, viviamo la povertà sanitaria e non solo quella economica. Per non parlare della diversa intensità del disagio, ove il luogo in cui nasci determina le tue sorti fino alla speranza di vita e a quella di morire in culla, come le statistiche ufficiali “gridano” da tempo inascoltate dai decisori istituzionali. Come gridano altrettanto pesantemente vendetta, nel tempo della didattica a distanza, le narrazioni di bambini che costretti dalla malattia, pagano i propri malanni alla salute e, quando sopravvivono, mesi e a volte anni di interruzione del percorso didattico, che vuol dire ritardo culturale e relazionale, quando basterebbe rendere obbligatoria per le scuole, a richiesta delle famiglie, la didattica a distanza per questi alunni particolarmente sfortunati. Per non parlare della situazione di abbandono delle famiglie costrette a migrare per le malattie dei propri figli, abbandono dello Stato e al netto del sociale organizzato che prova a mettere una toppa e degli spiccioli messi a disposizione dalle leggi di bilancio.

Bene di questi tempi l’assegno unico per figlio (con la speranza che la crisi di governo in atto non interrompa il percorso), alcune attenzioni e finanziamenti per contrastare la povertà educativa, piccoli interventi istituzionali per “salvare” i più piccoli nello tsunami della vita ordinaria aggravata dalla pandemia. Ma a quando la valorizzazione del presupposto che senza bambini che crescono bene, che vivono bene, che sognano serenamente il proprio futuro, la costruzione dell’intero futuro della società è segnato negativamente? Una valorizzazione reale di tale presupposto non lascerebbe ancora visibili dati che evidenziano che la mortalità infantile sia di molto diversa tra nord e sud, per ricordare la peggiore vergogna su questo versante! Tutto questo mentre i nostri rappresentanti discutono ancora sull’accesso o meno al MES. Il commento lo lascio al lettore.

È arrivato il tempo, non rinviabile (se mai lo è stato), di pensare ai bambini e ai ragazzi come un “riserva” da proteggere e promuovere, per aiutarli a rinforzarsi per spiccare il volo e per saper atterrare bene, lezioni di volo e di atterraggio per parafrasare il titolo dell’ultimo libro di Roberto Vecchioni. Basta con politiche residuali per i minori o assorbite da altre in virtù di un effetto indiretto su di essi qualunque investimento si faccia. Il senso di civiltà di una nazione richiede che il diritto a vivere (e crescere bene) sia centrale, prioritario, inderogabile, riconoscibile. Chi fa diversamente bleffa, sul proprio stesso futuro. E non scomodiamo la pandemia come alibi, perché anche in guerra, ci ricorda la storia dell’umanità, i bambini vanno protetti.

 

Gianluca Budano

Consigliere di Presidenza Acli con delega alle Politiche della Famiglia e della Salute

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