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Vista da Visegrád, come pensare all’Unione Europea guardando da Est

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Da alcuni anni a questa parte un’espressione è entrata piano piano nel lessico della politica italiana legata all’Europa: il Gruppo di Visegrád. Sebbene appaia nella nostra stampa come un´espressione informale, o una definizione giornalistica per sommare tra loro Paesi ad est che hanno (o avevano) posizioni simili su alcune agende UE, si tratta in realtá di un´associazione fondata nel 1991 tra Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria per fronteggiare insieme, culturalmente e politicamente, i nuovi tempi post-comunismo. Visegrád è un toponimo ricorrente nell´area, ma in questo caso indica una cittadina in Ungheria, scelta come sede di questa associazione nonostante la presidenza sia a rotazione.

I Paesi del Gruppo di Visegrád hanno subito, in questa congiuntura storica, il traino fondamentale e imprescindibile della “democrazia illiberale” ungherese di Viktor Orbán (prezioso alleato di Matteo Salvini) e si sono allineati su una visione, e interpretazione, delle regole comunitarie sui generis: nessuna redistribuzione dei migranti, centralismo nella gestione dei media, toni forti nella propaganda, gestione del potere para-mafioso. Si tratta di posizioni, tutte, che vanno contro agli interessi degli altri Stati europei, Italia in primis. La politica di non accoglimento (in particolare in Ungheria, in cui questa linea è stata ufficializzata anche inserendola all’interno della Costituzione lo scorso anno) è del tutto contraria ai principi stessi della “costruzione europea” ed è in netta contraddizione anche con le tappe necessaria alla prossima evoluzione dell’UE stessa. Ci si chiede, a ragione, perché gli ultimi Paesi entrati nella UE siano proprio tra i primi a non mostrare alcun segno di apertura nei confronti di chi si affaccia ai loro confini.

Pur se, per citare il titolo di un libro dell’ambasciatore Giorgio Radicati, “l’euroscetticismo è nato a Praga”, tuttavia qualche segnale di cambiamento si scorge all’orizzonte.

La recentissima espulsione del partito di Orbán (Fidesz – Unione Civica Ungherese) dall’alveo del Partito Popolare Europeo in vista delle Elezioni europee 2019 traccia un precedente molto importante nel capire quali posizioni si possano “normalizzare” all’interno della democrazia europea. E la “democrazia illiberale” costruita in questi mesi da Orbán sembra non avere molto spazio e molto consenso, almeno in Europa. In Slovacchia, invece, l’avvocatessa liberale ed europeista Zuzana Caputova andrà al ballottaggio il 30 marzo per le Elezioni presidenziali.

Per trattare correttamente dell’Allargamento a est dei primi anni Duemila occorre comunque osservare come “l´occasione storica” di allora stia attraversando oggi una lunga fase di assestamento e di passaggio verso la maturità: incertezze, disillusioni riguardo ciò che voglia dire oggi fare parte dell’Unione Europea, si sprecano. A fronte di istituzioni che hanno mostrato fondamentali elementi di solidità (non si può negare come l’Unione Europea sia uscita pressoché indenne da una delle più grandi crisi del debito sovrano che la storia recente ricordi), è mancata la spinta di condivisione e partecipazione che ci si aspettava, soppiantata oggi invece da una retorica “popolo – elites” di segno decisamente opposto. L´assertivitá della Russia di Putin e l´ondivago (ma non incerto) procedere dell´Amministrazione Trump non aiutano a offrire a noi europei facili orientamenti secondo cui indirizzare la nostra azione.

Un punto, per concludere, resta fondamentale: anche in ragione degli appelli securitari che da est battono sulle mura della Fortezza Bruxelles chiedendo aiuto, non dobbiamo mai dimenticarci di quanto fuori dall´Unione faccia freddo. E non é un´espressione giornalistica o letteraria per concludere queste righe di riflessione, ma sono le esatte parole che il Ministro degli Esteri macedone ha utilizzato di recente per parlare della Brexit, del suo Paese, e allargando il nostro sguardo, per parlare di tutta la Casa comune degli europei.

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