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La democrazia del bene. Intervista a Filippo Anelli

Proseguono le riflessioni e intorno allo smart report curato da Gianluca Budano e David Recchia, in occasione della 70esima Giornata Mondiale della Salute, una ricerca inedita di analisi sugli effetti della pandemia Covid-19 sulle politiche italiane della salute e di welfare. Questa settimana vi proponiamo l’intervista  a Filippo Anelli, Presidente FNOMCeO (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri)

 

 

La democrazia del bene. Intervista a Filippo Anelli

Buongiorno dottor Anelli, da ormai molti mesi siamo alle prese con una pandemia che ha sconvolto le nostre vite. Da qualche settimana siamo entrati nella fase tre, quella della cosiddetta ripartenza, che ci costringe a fare i conti con i numerosi problemi vecchi e nuovi emersi durante l’emergenza sanitaria. Alla luce della sua esperienza, cosa dovremmo fare per ripartire?

Per ripartire dobbiamo evitare i pregiudizi e basarci sui dati. La crisi ci ha fatto capire che la visione ospedalocentrica non risolve i problemi della salute. In Italia ci sono ancora disuguaglianze. Quindi c’è bisogno di uno Stato centrale che si faccia carico di colmare questi squilibri. Le disuguaglianze non sono solo territoriali. Sappiamo, infatti, che chi ha un livello d’istruzione basso ha anche un livello di sopravvivenza minore rispetto alla media nazionale. Alcune malattie sono maggiormente presenti dove ci sono sacche di povertà. La dimensione sociale è complessa e dobbiamo essere in grado di recepirla, ma anche i cittadini devono partecipare alla gestione, in qualche modo. Non si può delegare tutto ad un manager. Credo che il sistema debba essere riformato, provando a bilanciare i poteri. Attualmente i poteri sono fortemente centralizzati nelle mani dei Governatori e dei Direttore Generali. Ciò limita la partecipazione e mortifica le competenze. Il ruolo delle comunità locali dovrebbe essere rivalutato non solo nella partecipazione ma anche nella gestione. Purtroppo, dobbiamo prendere atto che fino ad oggi il sistema ha risposto prevalentemente a dei criteri di carattere economico; è necessario, invece, offrire soluzioni non soltanto ai bisogni del singolo ma anche alla collettività/comunità. Per far questo dobbiamo recuperare la partecipazione locale. Solo così potremo calibrare gli interventi, differenziandoli da Regione a Regione, da città a città, da quartiere a quartiere.

Quindi, secondo Lei, bisognerebbe allentare il vincolo economico cui siamo stati legati finora?

Questa è una condizione necessaria ma non sufficiente. C’è bisogno di una riforma che vada nel senso della nostra Costituzione. Fino ad oggi abbiamo avuto come faro la spesa e i manager, non gli investimenti. A mio avviso, sono due le componenti importanti su cui improntare il cambiamento: i professionisti, che sanno interpretare le esigenze dei pazienti, e i cittadini che esprimono bisogni. La politica non può interpretare il bisogno. D’altro canto, le professioni troppo spesso sono state ridotte a puri tecnicismi, a semplice conoscenza e competenza, ma non sono solo questo! Esercitare la professione medica consiste nel sapere orientare le proprie conoscenze al bene. Fare del bene significa essere medico. Il medico non può slegarsi da questi due concetti: da una parte, la conoscenza, dall’altra, il bene. Ciò significa avere autonomia nella scelta e rispondere delle cose che si fanno. Quindi, responsabilità.

C’è differenza tra fare bene e fare del bene?

È proprio così, questo è il fine della medicina: fare del bene. Ogni lesione, ogni piccolo problema di una persona diventa un problema anche per il medico. Quando si instaura un rapporto di fiducia tra medico e paziente, il bisogno della persona diviene l’essenza stessa della professione, anche se questo in termini generali (strettamente tecnici) potrebbe non essere appropriato.

Potrebbe spiegare meglio?

Se una persona si trova in una condizione di grave disagio, sicuramente prova una sensazione di confusione e incertezza anche rispetto al suo stato di salute. Allora potrebbe essere utile sottoporre il paziente ad una serie di indagini, visite e incontri, perché, pur sapendo che quelle indagini non riveleranno nulla di patologico, restituiremo al cittadino una tranquillità sul piano personale. Queste indagini, dunque, diventano appropriate perché consentono al medico di prendersi cura del paziente, permettendogli di ritrovare un equilibrio, che diversamente sarebbe difficile ottenere. Dunque, si utilizzano gli strumenti a disposizione per raggiungere l’obiettivo, cioè fare del bene e far stare bene il paziente. L’appropriatezza diviene un processo più complesso e non uno sterile ingranaggio entro cui stare.

Lei ha parlato di rapporto medico paziente, che però negli ultimi lustri sembra essersi deteriorato. Come possiamo rigenerare fiducia?

La fiducia si riacquista soltanto se il ruolo professionale è compreso dai cittadini. Se noi continuiamo a considerarlo come pezzo di un sistema, di una catena di montaggio fordista, allora otterremo non soltanto una medicina difensiva, ma anche violenza contro gli operatori, perché saranno percepiti come quel pezzo che non offre ciò di cui si ha bisogno. Se, invece, il professionista fosse inquadrato in una dimensione differente, se fosse visto come un garante, allora diventerebbe lo strumento per attuare i propri diritti. Ciò sarà possibile soltanto se verrà considerato come l’artefice del bene, colui che mette le proprie competenze a disposizione del bene, colui che si assume le proprie responsabilità di scelta. Inserire il professionista in un sistema fordista comporta sicuramente dei vantaggi sulla gestione economica, ma crea tutte quelle implicazioni negative di cui abbiamo parlato. Al contrario, assegnare la giusta rilevanza ai medici, alle loro scelte, significa andare verso la democrazia; significa lasciare al rapporto tra cittadino e il suo medico la soluzione dei problemi. Il medico per primo rifiuterà di agire in modo diseguale; egli è il garante dei diritti. Ricollocando la professione medica entro questo perimetro di senso, verrebbero meno la medicina difensiva e la violenza, si recupererebbe il ruolo sociale della professione.

 

E del rapporto tra i professionisti cosa pensa?

Questa è una bella domanda, tra le più attuali. Noi veniamo fuori da una lunghissima conflittualità tra medici e infermieri. Io credo che le professioni siano complementari, che devono stare insieme per creare sinergie nell’assistenza, ognuno con le sue competenze e con i suoi percorsi formativi. Non ci può essere assistenza senza i medici! Lo dico perché negli ultimi anni abbiamo rilevato la tendenza a fornire assistenza a basso costo, che ha alterato non poco i rapporti tra medici e infermieri. Chiaramente è vero anche il contrario: i medici non devono fare gli infermieri, perché quel tipo di assistenza deve essere svolto da chi ha competenze specifiche. Bisogna lavorare insieme. Questa è la sfida per il futuro: non lavorare più da soli, mettere insieme gli uni e gli altri, differenti conoscenze e specificità. Lavorare da soli ci riporterebbe al passato, a un modello che deve essere superato. Bisogna formare gruppi orizzontali dove non ci sono dipendenze reciproche né capi, dove le competenze emergono dal dialogo. Bisogna declinare le nostre professioni in chiave contemporanea, ma senza rinunciare alla propria storia.

 

Durante questa intervista ha parlato anche di comunità, assegnandole un ruolo cruciale. Come immagina la comunità del futuro?

Dipenderà molto dalla maturità dei cittadini dalla voglia di partecipazione, dal recupero della dimensione democratica della nostra società. È un processo complesso. Non si possono imporre riforme senza consenso. Io auspico che i cittadini prendano maggiore consapevolezza del proprio ruolo e considero strategico il ruolo delle professioni. Ne vale anche della qualità della democrazia, perché senza le competenze molti diritti non sarebbero erogabili né esigibili. Mi riferisco non solo al diritto alla salute, ma all’autodeterminazione, all’uguaglianza e all’equità, all’istruzione, alla libertà della ricerca… Queste dimensioni sono tutte correlate alla professione medica. Rivalutare tutte le professioni connesse ai diritti tutelati dalla Costituzione non può che far bene a questo Paese, perché consentirebbe di mantenere un equilibrio tra poteri.

 

Dunque, secondo Lei siamo di fronte ad un sistema sbilanciato sull’economia e con un deficit democratico?

Ovviamente anche l’economia deve avere voce in capitolo, il problema è quanto prevale. Le professioni possono svolgere un’azione calmierante rispetto ai potentati economici che condizionano il funzionamento democratico della società. Poi c’è la partecipazione democratica, dare un ruolo alle comunità locali significa proteggere la democrazia.

Concludendo questa nostra piacevole conversazione, mi permetto di interpretare il suo pensiero. Mi pare di aver capito che per Lei la salute vada costruita al di là degli ospedali e del medico, con tutti i pezzi della società. Ho capito bene?

Certo, la salute non è soltanto sanità! Essa ha a che fare con la costruzione delle città, con la produzione industriale, con l’alimentazione, con l’associazionismo… Essa presuppone uno sviluppo armonico. È anche un modo per interpretare la nostra società. Esempio ne è il caso dell’ex Ilva di Taranto, dove per garantire il diritto al lavoro non è stato garantito il diritto alla salute. I diritti sono interconnessi e devono essere resi armonici: l’uomo non può essere diviso o spacchettato, l’uomo è nella sua interezza o non è. Occorre abbracciare una visione olistica: non si può fare il medico senza avere una visione sociale.

 

Nelle scorse settimane abbiamo pubblicato l’intervista al Presidente nazionale Anffas, Roberto Speziale, il contributo del ricercatore Valentino Santoni di Secondo Welfare, l’articolo di Ubaldo Pagano,  l’approfondimento del Prof. Vincenzo Frusciante,  la riflessione dell’on. Paolo Siani,  l’intervista al Prof. Saverio Cinieri e l’editoriale di Francesco Strippoli. 

 

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