La sanità pubblica è un bene che va trattato con intelligenza

Proseguono le riflessioni e intorno allo smart report curato da Gianluca Budano e David Recchia, in occasione della 70esima Giornata Mondiale della Salute, una ricerca inedita di analisi sugli effetti della pandemia Covid-19 sulle politiche italiane della salute e di welfare. Dopo un primo bilancio del dibattito di queste settimane, questa intervista rappresenta il passaggio dalla fase della crisi sanitaria subita alla fase della crisi gestita e inaugura un nuovo corso di discussioni che animeranno il dibattito nelle prossime settimane

 

 

 

Intervista al Professor Saverio Cinieri – Oncologo, Presidente Eletto AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica)

La crisi sanitaria sembra essere sotto controllo, anche se a prezzo di grandi sforzi economici e di lutti.  È tempo di riavviare l’enorme e complessa macchina della salute italiana. Abbiamo chiesto al Professor Saverio Cinieri la sua idea circa il futuro della Sanità pubblica. Ne è emerso un quadro complesso a tratti anche incoraggiante: secondo il noto oncologo, il futuro, pur incerto, potrebbe riservare delle sorprese positive a patto, però, che si lavori con intelligenza, tenendo bene in mente che la sanità è un bene prezioso, tutelato dalla Costituzione. Quest’intervista, realizzata da David Recchia e Annarita Abbondanza, si innesta nel dibattito avviato durante la Pandemia con la pubblicazione dello Smart Report. Essa rappresenta il passaggio dalla fase della crisi sanitaria subita alla fase della crisi gestita; inaugura un nuovo corso di discussioni che animeranno il dibattito nelle prossime settimane.

 

Quest’anno, in collaborazione con Iref, abbiamo realizzato un’indagine sulle migrazioni sanitarie, non ancora pubblicata. Il problema oncologico sembra essere la principale molla. Ci può spiegare meglio i motivi per cui si emigra?

Pof. Saverio Cinieri – I motivi sono presenti da anni e sono complessi e per l’oncologia medica derivano dall’atto chirurgico, quindi, non da un atto medico.

Spesso su consiglio del medico di famiglia, si segue il chirurgo che si conosce nei centri di maggior fama. Poi esiste la rete, i social, dove si trova tutto e il contrario di tutto. Quando si digita un nome di un chirurgo, l’algoritmo sceglie e propone una serie di nomi, ma non è detto che si tratti proprio dei migliori professionisti. Di solito i primi sono quelli indicizzati da Google. Insomma, non sempre il criterio della scelta si basa sulle capacità tecniche o mediche. Di conseguenza, non sempre l’emigrazione viene guidata verso colleghi di indubbia bravura e specificità.

L’altra motivazione, meno conosciuta e intuitiva, è la presenza di parenti in un dato luogo d’Italia. Faccio un esempio: qualche anno fa notai un’emigrazione verso Treviso. C’era un cluster di migranti che andavano lì. Certamente Treviso è una bella città, ma non è certo la più famosa per le cure oncologiche. Il motivo dell’emigrazione stava proprio nel fatto che in quel luogo il malato poteva contare su una rete parentale in grado di accudirlo e sostenerlo in quella delicata fase.

Terzo dei quattro motivi principali è l’assenza di specificità locali e questo riguarda soprattutto l’oncologia pediatrica: una scienza difficile, che si svolge in pochi centri specializzati. In questo caso l’emigrazione è praticamente un atto obbligato, dato che non ci sono centri che possono dare risposte adeguate. In generale, il problema della specificità era più presente in passato e non è sempre vero nel presente.

Il quarto ed ultimo motivo, è la sfiducia dei nostri concittadini del Sud verso le istituzioni locali. Una sfiducia dovuta soprattutto a motivi di accesso. Si tratta di un problema di organizzazione, di cui risente soprattutto il settore pubblico; il privato in genere svolge una migliore informazione, utilizzando personale specializzato. Oggi molti ospedali, soprattutto al Nord, si sono organizzati e hanno risolto questo problema.

Una volta trovato l’ospedale adatto e dopo l’intervento chirurgico cosa succede?

Pof. Saverio Cinieri – Dopo l’intervento chirurgico bisogna somministrare la terapia, che può durare un anno e molto di più; ed è lì che cominciano i problemi per chi ha deciso di farsi operare molto lontano da casa: è necessario riorganizzare la propria vita e quella dei propri familiari. Ma questa non è l’unica strada possibile. Sempre più spesso accade che il paziente, quando ben consigliato, decide di affrontare questa fase utilizzando l’ospedale più vicino.

Nel mio ospedale, negli ultimi anni, abbiamo riassorbito il 100% delle migrazioni, grazie anche alle segnalazioni di alcuni colleghi. Questo sistema in rete, gli oncologi medici lo stanno mettendo in pratica da anni. Anche grazie all’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), di cui sono Presidente Eletto, scelto durante il congresso tenutosi a Roma il 25/27 ottobre 2019, i rapporti tra colleghi sono sempre più stretti; sempre più spesso, quindi, i pazienti vengono indirizzati verso le strutture più vicine e idonee.

 

Da quanto ha appena detto, pare di capire che nei territori la capacità e l’offerta ci siano. Perché, allora, c’è ancora tanta sfiducia?

Pof. Saverio Cinieri La vera domanda è la seguente: chi decide se un territorio sia o meno all’altezza del proprio compito? A volte le buone notizie si diffondono con difficoltà. Quando sono arrivato qui a Brindisi, dove faccio il primario di Oncologia, avevo a disposizione soltanto due collaboratori e, ovviamente, facevamo un numero limitato di terapie. Oggi il mio gruppo è composto da 14 medici, due psico-oncologi e facciamo molto di più. Dunque, non ha senso andare da un’altra parte per farsi curare. Chi lo fa, probabilmente non è stato ben informato. Credo che un ruolo cruciale per questo problema lo abbiano i medici di famiglia, i quali conoscono i problemi che ha avuto il paziente e dovrebbero saperlo indirizzare. Noi medici ospedalieri dobbiamo “aprirci” ai medici di famiglia e loro a noi: bisogna rafforzare la medicina territoriale. Un’altra cosa importante è il disorientamento dei pazienti. In questo caso è fondamentale l’atteggiamento dello staff medico, che deve dare risposte univoche. A tal fine, occorre fare molte riunioni multidisciplinari, usare le reti oncologiche (ove presenti) e i nuovi sistemi di comunicazione, a partire dalle mail.

 

Durante il lockdown che tipo di problemi avete avuto?

Pof. Saverio Cinieri – La pandemia qualche problema lo ha causato. Soprattutto per i nuovi pazienti oncologici. Le “chirurgie” sono state spesso trasformate in rianimazione: alcuni interventi chirurgici, diagnosi e terapie chirurgiche non sono stati eseguiti, perché in quel momento servivano le sale operatorie e soprattutto i respiratori. Gli screening sono stati bloccati. Abbiamo chiesto come associazione di riavviarli poiché, come è noto, la diagnosi precoce può salvare la vita. Il follow-up è stato spesso eseguito per via telematica con vari sistemi, utilizzando mail e piattaforme varie.  Anche i pazienti che hanno deciso di fare la terapia al Nord hanno avuto difficoltà: molti, quindi, sono stati reindirizzati verso il territorio, dove spesso esistono delle eccellenze non utilizzate, e hanno potuto così scoprire che potevano risparmiarsi mesi se non anni di viaggi. Come dicevamo, si tratta di un problema di informazione. Bisogna tuttavia riconoscere che queste situazioni ad oggi sono residuali, poiché già prima della crisi sanitaria è stato svolto un importante lavoro di “recupero”.

Può spiegare meglio quanto appena detto con degli esempi di buone pratiche?

Pof. Saverio Cinieri – Durante la pandemia il vero problema è stata l’organizzazione: si è imposta la necessità di garantire accessi con orari precisi, e questo ha generato notevoli disagi in molte strutture. Al contrario, nel nostro ospedale di Brindisi, si lavora su appuntamento già da dodici anni. Per i primi due anni, ho avuto molte difficoltà a consolidare questa nuova abitudine: ho dovuto far capire ai pazienti che rispettare l’orario dell’appuntamento era una necessità stretta, e che l’ordine d’arrivo non poteva più essere preso in considerazione. Alla fine, tutti si sono adeguati. È anche un problema di educazione reciproca. Fare abituare i pazienti non è stato semplice, però si può fare: al Nord si fa da sempre e lo si accetta, bisogna accettarlo anche al Sud.

Per quel che riguarda le terapie, non ci siamo fermati: il day hospital di Bergamo Humanitas Gavazzeni, ad esempio, ha continuato a lavorare in sicurezza, nonostante la struttura ospedaliera sia stata investita da un vero e proprio tsunami sanitario. In alcune situazioni hanno chiuso i reparti di oncologia, trasferendoli però in ospedali vicini. Insomma, la risposta della sanità, seppur con alti e bassi, c’è stata.

Il primo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri aveva tutelato i pazienti oncologici; dal canto suo, il 13 marzo, l’AIOM ha elaborato le raccomandazioni per i pazienti oncologici durante la pandemia. Adesso c’è la fase due: la pandemia non è finita, e noi dobbiamo andare avanti continuando a proteggere i pazienti. Organizziamo una chat al giorno per trovare le soluzioni a questi problemi nuovi. Ci siamo rimessi in moto: le chirurgie sono di nuovo attive; a Brindisi abbiamo costituito due equipe separate per la chirurgia della mammella  (una “Covid” e una “Covid-free”); stiamo azzerando le liste d’attesa.

 

Lei spesso conclude le sue risposte con un occhio al futuro. Cosa servirà per rafforzare il SSN?

Pof. Saverio Cinieri – Una nostra indagine ha dimostrato che durante la fase 1 gli staff hanno funzionato e i pazienti si sono sentiti tutelati: non abbiamo avuto fenomeni d’abbandono e le terapie sono continuate. Adesso però le nuove regole “Covid” impongono di ridurre il numero delle terapie, perché il distanziamento sociale richiede maggiori spazi fisici. C’è bisogno di intelligenza, la burocrazia va guidata: la terapia ha le sue regole e non può essere interrotta, per cui o si creano maggiori spazi o si interviene regolando i flussi. Se non si lavorerà con intelligenza, si rischierà una riduzione dell’offerta e si creeranno liste d’attesa.

La burocrazia, che nel nostro campo va analizzata in termini di flessibilità/rigidità, può essere un vero mostro; la pandemia, che doveva azzerarla, potrebbe avere l’effetto di rafforzarla. I pazienti oncologici, nel tempo, saranno sempre di più: aumenteranno le diagnosi, aumenteranno i bisogni. Tutto si intensificherà, per cui è necessario che sin da adesso si dedichino maggiori spazi fisici all’oncologia e all’ematologia.

In questo momento il sistema è pronto per affrontare la situazione per la pneumologia e per le malattie infettive. Dobbiamo rivolgere la nostra attenzione alla “pandemia oncologica”, che noi medici annunciamo da anni: l’aumento delle patologie oncologiche è meno travolgente della trasmissione di un virus, ma è già in corso. Bisogna lavorare, sfruttando questo momento di riorganizzazione per avere più spazi e più risorse. C’è bisogno, ora, di spendere per l’acquisto di farmaci ad alto costo perché la sanità, oltre ad essere un diritto sancito dalla costituzione, è un bene.

Se vogliamo conservare il Sistema Sanitario Nazionale com’è, dobbiamo investire più risorse e impiegarle dove servono. Adesso che si riparte bisogna spendere in maniera intelligente: per farlo, è necessaria una guida nazionale. Il Piano Oncologico Nazionale viene realizzato ogni tre anni, ma sostanzialmente disapplicato. Bene, questo è il momento di tradurre in azioni le decisioni prese.

 

 

*Nelle scorse settimane abbiamo pubblicato l’intervista al Presidente nazionale Anffas, Roberto Speziale, il contributo del ricercatore Valentino Santoni di Secondo Welfare, l’articolo di Ubaldo Pagano,  l’approfondimento del Prof. Vincenzo Frusciante e la riflessione dell’on. Paolo Siani.