In principio il problema era la disoccupazione. Poi, è arrivato il momento dell’incertezza e della precarietà, della mancanza di tutele e dell’impoverimento del lavoro. Siamo diventati testimoni di un “lavoro povero” che oltre a rendere più difficile la vita delle persone, impoverisce anche il Paese, la sua economia, il suo welfare.
Abbiamo circa 700.000 occupati in più rispetto al 2019, ma occorre considerare che la spesa pubblica è 157 miliardi più di allora: una cifra che vale 4 milioni di salari medi a tempo pieno. Soprattutto, l’Italia è l’unico Paese in Europa dove, tra il 1990 e il 2020, i salari reali sono calati: altrove sono cresciuti del 30% e anche di più. Peggio: anche i dati aggregati raccolti dal Caf Acli sulle dichiarazioni dei redditi confermano la stima Ocse di una perdita del 7% del potere d’acquisto dal 2020. E il divario occupazionale e di reddito tra uomini e donne resta sempre uguale, anche tra i dipendenti a tempo indeterminato: un quinto delle lavoratrici rientra tra i cosiddetti “working poors”. Questa condizione è molto diffusa nel precariato: tra chi lavora meno di 7 mesi l’anno, il 93,2% delle donne e l’89,6% degli uomini sono poveri.
Il nostro mondo del lavoro è ormai dominato dal massimo ribasso e da un’idea cinica di produttività, non basata sulla qualità, ma sul tagliare i costi, inclusi quelli sulla sicurezza, la salute e il rispetto dell’ambiente. La sola parola “mercato del lavoro” presuppone che i lavoratori siano la merce. Impoverimento del lavoro, però, significa anche impoverimento del Paese: lo scorso anno per ogni cittadino, minori inclusi, lo Stato ha speso in media, tra tutto, 19.400 euro. Se consideriamo le categorie di lavoratori sopra citati, che guadagnano meno di 14.000 euro netti l’anno, questi ne verseranno alle casse pubbliche non più di 6.000 tra tasse e contributi, senza contare bonus e tagli fiscali. Se si aggiunge che il gettito Irpef arriva soprattutto da salari e pensioni, capiamo subito che il sistema non può essere sostenibile e, a queste condizioni, non regge. Per questo, le tutele dello stato sociale divengono sempre più povere e bersagliate da definanziamenti a danno dei servizi (come dimostrano anche oggi i tagli previsti dal governo Meloni nel Def). Questa gara al massimo ribasso purtroppo peggiora anche una delle piaghe più grandi del nostro Paese, gli incidenti sul lavoro: le tragedie nel cantiere di Firenze e nella centrale di Suviana sono solo la punta dell’iceberg.
Per queste ragioni, il recente documento della Direzione nazionale delle Acli propone l’equazione “Lavoro povero = povero Paese”. Le proposte toccano 7 aspetti strategici: istruzione, formazione professionale e politiche attive per il lavoro; inclusione e lotta alle disparità; emergenza sicurezza e lavoro irregolare; assenza di diritti per i migranti e urgenza di politiche di accoglienza e integrazione; iniquità di un sistema fiscale che premia i super ricchi e la furbizia a discapito del lavoro; politiche contro la deindustrializzazione, proponendo infine l’adozione di un indice dell’esistenza libera e dignitosa, per arrivare a un salario minimo in ogni settore per via scientifica, valorizzando i contratti più rappresentativi e di qualità.
Abbiamo di fronte alcune emergenze esplosive, che scaturiscono dall’aver sempre rimandatole scelte più importanti, riguardanti l’attuazione e la tutela dei diritti e dei doveri costituzionali legati al lavoro. La nostra e la precedente sono le uniche generazioni che, apparentemente, sembrano “viziare” figli e nipoti, persino indebitandosi per concedergli il superfluo, mentre la verità è che gli stiamo consegnando un futuro peggiore del nostro presente.
A non dire che la crisi demografica -la madre di tutte le emergenze – sembra ormai irreversibile e può compromettere qualsiasi forma di economia o speranza per un futuro migliore, se non saremo in grado di arginarla. I ventenni di oggi sono numericamente pochi (-38% rispetto agli ultra-cinquantenni) e questo comporta una crisi difficilmente reversibile del mondo del lavoro, delle pensioni e perfino dei patrimoni delle famiglie.
È il momento di scelte vere, di ridare valore al lavoro, di smettere di rimandare a domani i problemi: solo cominciare a ragionare davvero in dimensione europea, dal punto di vista politico, economico e dei diritti sociali potrà salvarci, prima di tutto dalla nostra paura del futuro, dalla nostra incapacità di comprenderlo e dalla nostra ignavia nel governarlo. Noi non ci rassegneremo mai a questa involuzione, non ci rassegneremo mai ad avere un lavoro povero perché, come è scritto nel primo articolo della Costituzione, se il lavoro è povero si impoverisce anche la democrazia.
Emiliano Manfredonia, presidente nazionale delle Acli
Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 29 aprile 2024