Ceta e Ttip: un ostacolo al bene comune e alla responsabilità sociale

Il varco aperto in Europa dal Ceta…

Più se ne viene a sapere circa gli accordi commerciali internazionali Ceta e Ttip e più si resta perplessi, se non addirittura allibiti, circa i contenuti e le modalità con cui si pretende di far entrare in vigore questi trattati.

Per quanto concerne il Ceta, l’accordo tra Canada e Unione europea, sembrerebbe confermata la notizia per cui al suo interno esisterebbe una clausola che ne consente l’entrata in vigore nella sua quasi totalità (circa il 95%, ivi compresa la protezione degli investimenti tramite Isds) senza il consenso del Parlamento europeo e di quelli nazionali, a decorrere dalla sola approvazione del Consiglio dell’Unione (basterebbe l’assenso di 15 governi sui 28 complessivi). A quel punto, in forza degli articoli del trattato, gli Stati membri dell’Unione potrebbero essere soggetti alle eventuali cause da parte delle aziende per un periodo di almeno tre anni, anche per quei Paesi che dovessero respingere l’accordo! L’attuazione provvisoria del Ceta sarebbe perfezionata e il trattato resterebbe in vigore a tempo indefinito, poiché non esisterebbe alcuna scadenza entro la quale votare per rendere l’accordo pienamente vigente. Volendone recedere, poi, uno Stato membro avrebbe bisogno del voto del Consiglio, il quale non è influenzato in modo diretto dalle decisioni parlamentari… Una vera trappola antidemocratica!

Come mai si stanno cercando tali espedienti per garantire l’applicazione del Ceta? Non sarà che la crescente opposizione della società civile induce i negoziatori ad un “cauto pessimismo” circa le sorti del/dei trattati e a cercare di superare gli ostacoli con escamotage ancor più antidemocratici?

Del resto, il Ceta è il precursore – in tutto e per tutto – del Ttip, e non siamo solo noi Europei a temerlo. Preoccupati allarmi giungono anche dal Canada, dove il Consiglio dei Canadesi (un’importante organizzazione non profit che agisce nel sociale), nella persona del suo presidente Maude Barlow, ha di recente lanciato un monito agli Europei contro l’adozione di Ceta e Ttip sulla base dell’esperienza compiuta nel Paese nordamericano con trattati simili: l’accordo di libero commercio Canada-Stati Uniti (Custa) firmato nel 1989 e l’accordo di libero commercio che includeva il Canada, Stati Uniti e Messico (Nafta) concluso nel 1994. Questi due accordi, che hanno prodotto la perdita di gran parte del settore manifatturiero canadese (spostatosi off-shore) e del controllo regolatorio sulle sue riserve energetiche, hanno rappresentato un modello che viene tuttora seguito da molti governi. Tanto che la clausola Isds introdotta nel Nafta si ritrova anche nel Ceta e nel Ttip. Il risultato finale è che il Canada è il Paese più citato in giudizio dagli investitori nel mondo sviluppato.

L’esperienza del Nafta ha insegnato ai Canadesi che i benefici di tali accordi sono riservati ai grandi e ricchi gruppi, mentre le famiglie e i lavoratori hanno visto i propri redditi ristagnare e il debito delle famiglie salire a livelli storici. Gli standard riguardanti la sicurezza alimentare, quella sociale e l’ambiente sono stati “armonizzati” al ribasso in Canada dopo l’introduzione del Nafta: in ognuno dei Paesi partner si è assistito ad un peggioramento dei processi produttivi a danno dell’ecosistema, fornendo anche alle imprese nuovi strumenti per interferire nelle politiche ambientali.

Ora lo scenario che Canada e Unione europea prospettano è quello di introdurre due accordi, il Ceta e il Ttip, in buona parte ispirati al Nafta e ad accordi analoghi. Ma – sostiene la Barlow – ciò avrà degli effetti negativi immediati: ai governi locali sarà di fatto impedito di sostenere lo sviluppo economico locale, indebolendo, sia in Europa che in Nord America, l’uso della spesa pubblica in funzione del raggiungimento di altri obiettivi sociali, come la crescita di posti di lavoro, la promozione dei produttori locali o il contrasto ai cambiamenti climatici. I governi nazionali vedranno scendere i propri standard e mettere sotto pressione ogni regola che – secondo le logiche del trattato – sia considerata un ostacolo al “commercio”, fino a prevedere uno scambio di informazioni tra le parti circa norme da varare prima ancora che queste siano condivise con i propri parlamenti e/o elettori.

Oltretutto, e per la prima volta in un accordo commerciale, al settore privato e alle lobby imprenditoriali americane ed europee sarà concesso ampio spazio per influenzare e co-scrivere le regole globalmente attraverso la creazione di appositi organismi previsti dai trattati allo scopo di fornire valutazioni sugli standard produttivi. Dunque, al di là di quali siano i livelli di protezione da cui si parte, l’importante è come le grandi compagnie useranno la cooperazione regolatoria e il meccanismo Isds per abbassarli ovunque. Sia in Canada che in Europa ci sono già spinte alla liberalizzazione in campo ambientale, sanitario e del lavoro, come pure alla privatizzazione dei servizi. Il Ceta accelererà questo processo. Inoltre, pur ammettendo che si riuscisse ad estromettere l’Isds dal Ttip, il Ceta, nella sua forma attuale, consentirebbe comunque alle corporation americane di avere un ingresso agevolato per impugnare le regole europee tramite le loro controllate in Canada.

È, quindi, il Ceta il primo accordo commerciale bilaterale che va contrastato, non fosse altro perché più avanti nel percorso di approvazione, chiedendo alla Commissione europea un’analisi approfondita del testo valutandone le implicazioni in termini di diritti umani, salute, occupazione, ambiente, spazio politico democratico, affinché i rappresentanti eletti possano fare il loro dovere di proteggere il bene pubblico ed agire responsabilità sociale.

…che spiana la strada al Ttip

Dopo il Ceta sarebbe la volta del Ttip, trattato in discussione che non solleva minori dubbi. Sono molte ormai le categorie che si sono apertamente schierate contro l’accordo. Tra le più significative rientra quella dei professori di legge, giudici, avvocati e procuratori. A parte rilievi critici già avanzati in precedenza, nel 2014 più di cento esperti legali hanno partecipato alla consultazione della Commissione sull’Isds, esprimendo al 97% la propria assoluta contrarietà ad ogni forma di arbitrato per la protezione degli investimenti e dichiarando che questi trattati sollevano dubbi di legalità (tra l’altro, l’Unione europea non avrebbe l’autorità per stabilire un tribunale sovranazionale riservato ai soli investitori, scavalcando i giudici nazionali) e sono pericolosi per lo stato di diritto.

La Commissione, come noto, ha proposto una modifica al sistema dell’Isds, presentando l’Ics (Investment Court System), ma i due sistemi differiscono ben poco. Anche in questo caso l’Associazione europea dei giudici, che riunisce 44 diversi gruppi nazionali, al termine del 2015 ha dichiarato di non vedere la necessità di un tale sistema giudiziario, che, per di più, non ha “base giuridica”. L’Associazione tedesca dei giudici ha ulteriormente ribadito il concetto, esprimendosi in merito al principio di quest’anno. Gli avvertimenti provenienti dalla comunità giuridica di non dare agli investitori stranieri privilegi speciali, saltando le leggi e i tribunali nazionali, sembrano, però, cadere nel vuoto.

Allarmate preoccupazioni nei confronti del Ttip provengono anche dal settore dell’agricoltura, di qua e di là dell’Oceano. Ad esprimerle chiaramente è stata l’ex congressista statunitense e docente di politiche pubbliche Sharon Treat, che intervenendo di recente ad un seminario organizzato dalla Campagna Stop Ttip Italia, ha illustrato l’impatto negativo delle politiche commerciali e degli accordi internazionali già in vigore sull’agricoltura, l’ambiente e il contesto sociale del Maine, il suo Stato di provenienza. La Treat ha sottolineato come il Ttip ponga una seria questione democratica, non trattando propriamente di tariffe commerciali ma di regolamenti interni e di come modificare le regole in agricoltura.

Partendo dal presupposto che i sistemi produttivi anche in agricoltura sono molto differenti tra Usa e Europa e che da noi ci sono sostanze e processi banditi invece consentiti negli Stati Uniti, non si comprende come la Commissione possa continuare ad affermare che non muterà nulla. Solitamente gli statunitensi non controllano la filiera ma il prodotto finale e il principio di precauzione, che è il criterio fondamentale per stabilire la commerciabilità di un prodotto tra gli Europei, praticamente non esiste in Usa. Le cose cambieranno – ha affermato la Treat – perché cambierà il meccanismo di formazione di regole e standard e l’esperienza mostra che in presenza di regolazioni differenti nello stesso ambito, prevale sempre quella meno restrittiva. Il mantra del Ttip sembrerebbe, quindi, essere: maggiori affari con meno regole. Ciò, oltretutto, finirà per favorire i grandi gruppi e i grandi affari, capaci di sedere al tavolo delle contrattazioni e di influenzare le decisioni tramite le valutazioni e gli studi sui prodotti da commercializzare, favorendo processi di concentrazione del potere e della ricchezza.

Ma anche per l’Europa l’impatto sul settore agricolo sarebbe importante. La situazione in Italia è poi particolarmente delicata. La nostra agricoltura ha nel 2015 aumentato le esportazioni ma per farlo è sempre più dipendente dall’import di materie prime, che grava sui guadagni delle aziende e sui salari degli addetti. Nel frattempo la superficie di terra coltivata diminuisce e i prezzi calano. Con l’ingresso del Ttip molti prodotti Usa, che ora sono più cari per le tariffe di importazione, entrerebbero sul mercato subito a prezzi vantaggiosi per il taglio delle tasse, mentre per altri prodotti considerati sensibili si rimanda la regolazione alla fine del negoziato. Realisticamente a quel punto nessuno farebbe fallire l’intero trattato seppur per proteggere una sola produzione agricola o il solo settore.

Inoltre, in molti mettono in dubbio che gli Usa siano il partner potenzialmente più interessante per l’agroalimentare italiano. Studi alla mano si osserva che da questo punto di vista prospettive migliori le offrono i Paesi europei: il nostro export verso di loro, molto cresciuto negli ultimi dieci anni, sarebbe pregiudicato dalla crescita dell’export americano, garantito dal Ttip. Per contro, i consumatori non ne avrebbero vantaggi, perché ciò che limita il commercio agroalimentare tra Usa e Ue sono le regole che proteggono la nostra sicurezza alimentare e che gli Stati Uniti, col Ttip, ci chiedono di eliminare o si propongono di riscrivere mediante l’istituzione di organismi transatlantici costituiti allo scopo. Nel frattempo, i prodotti di qualità e ad indicazione geografica protetta subiranno un contraccolpo dovuto simultaneamente al mancato riconoscimento della specifica protezione per molti di loro e dalla competizione derivante dai prodotti Italian sounding statunitensi che potranno circolare liberamente.

Infine il Ttip rappresenta un pericolo anche per le piccole e medie imprese del settore, che sono assai numerose in Europa e in Italia. Solo un’azienda su venti del settore nel nostro Paese ha grandi dimensioni, e spesso è a controllo estero. Le imprese alimentari in Italia vendono solo un settimo della produzione all’estero e la competizione con i colossi americani sarebbe letale.

Considerando nel complesso quanto noto su Ceta e Ttip, c’è seriamente da chiedersi se passi di qui l’idea di quel nuovo modello di sviluppo sul quale tanta parte della società civile organizzata ha riflettuto e si è spesa negli ultimi decenni. Davvero siamo lontani dalle aspirazioni riposte in un nuovo sistema mondiale più giusto e sostenibile. Dal prossimo giugno i negoziati entreranno in una fase decisiva. La Ue e gli Usa continuano a presentare questo accordo come una questione tecnica, mentre si tratta di argomenti che toccano da vicino la quotidianità di tutti. Per questo la Campagna Stop Ttip ha indetto per il 7 maggio una grande manifestazione nazionale a Roma, alla quale tutti sono invitati. Sarà un momento importante di sensibilizzazione e di mobilitazione sociale per denunciare il delinearsi di un quadro pericoloso per i diritti e la democrazia, in cui i profitti delle lobby finanziarie e delle grandi imprese multinazionali prevarrebbero sui diritti individuali e sociali, sulla tutela dei consumatori, sui beni comuni e sui servizi pubblici, negando nei fatti un modello di sviluppo e di economia attento ai lavoratori, alla qualità e all’ambiente. Per dire un fermo “no” a questa prospettiva, partecipiamo alla manifestazione del 7 maggio!