Chi salva una vita salva il mondo intero. Un dialogo con Gioele Dix.

A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana

Quando vado a Yad Vashem, la collina che lo Stato di Israele nel 1953 a Gerusalemme ha voluto dedicare per fare memoria delle vittime della Shoah, prima di entrare nel museo, porto sempre il gruppo che accompagno nel luogo più significativo di questo luogo: la sala dei bambini. All’uscita, la direzione obbligata porta a sostare davanti al monumento a Janus Korzack, il pedagogo polacco che diede luce e speranza ai bimbi, orfani dei genitori mandati nei campi di sterminio, rinchiusi nel ghetto di Varsavia. Per loro organizzò una vita parallela, fatta di teatro e di animazione, di scuola e di pittura. Korzack, benché in possesso di un lasciapassare che gli avrebbe permesso di lasciare la Polonia, decise invece di prendere, insieme ai suoi ragazzi, la via di Treblinka dove fu “gasato” il 6 agosto del 1942. Davanti al monumento, bellissimo, Korzack che abbraccia i bambini, vi è un albero di carrube, uno dei tantissimi che riempiono questo straordinario memoriale. Sono parte del “giardino dei giusti”, piantati in ricordo delle migliaia di persone che pur non essendo ebrei, hanno messo a repentaglio la loro vita per salvare ebrei. L’albero posto davanti al monumento di Korzack è dedicato a Cristiano X, re di Danimarca. Il quale, durante l’occupazione nazista del suo Paese, fece di tutto per salvare la piccola comunità ebraica presente, tanto che in Danimarca non furono mai applicate le leggi razziali e agli ebrei non fu imposto la stella gialla, poiché il Re aveva minacciato di portarla lui per primo in segno di solidarietà. Ogni volta che mi fermo davanti all’albero e alla targa di Cristiano X, ricordo che negli stessi anni, in Italia, avevamo un re, un Savoia – Vittorio Emanuele III – che controfirmò senza fiatare le leggi razziali emanate dal regime fascista. Aprendo in questo modo una delle pagine più vergognose della nostra storia del Novecento.

Una pagina che ha inghiottito migliaia di persone di origine ebraica che, da un giorno all’altro, si sono trovate ad essere persone non desiderate, schedate e censite. Tra queste vi era, a Milano, anche la famiglia Ottolenghi. Molti anni dopo, a narrare le vicende di questa famiglia in un libro che merita di essere letto (Quando tutto questo sarà finito, Mondadori) è stato un attore, noto per le sue parti comiche, tra i più conosciuti del nostro Paese: Gioele Dix. Dopo la sorpresa iniziale, la lettura è stata illuminante. È la vicenda della sua famiglia, il nonno Maurizio e la nonna Giulietta, con i figli Vittorio (che sarà poi papà di David, il vero nome di Gioele Dix) e il piccolo Stefano. Non è un libro sulla Shoah, anche se bordeggia il tema, ma la storia di una famiglia di italiani, con nonno patriota e simpatizzante di Mussolini, costretta a fuggire, ma che non vede l’ora di tornare. È il racconto di un ragazzo, senza retorica, molto asciutto, dove i fatti della microstoria di una famiglia normale si intrecciano a quelli della grande, terribile Storia di quegli anni. La fortunata intuizione di Gioele Dix è stata quella di far raccontare in prima persona la vicenda al piccolo Vittorio, con una sorta di transfer di figlio in padre. Un io narrante che ripercorre gli anni anni dal 1938 al 1945 parallelo al suo passaggio dall’infanzia all’adolescenza.

Cosa ti ha spinto a scrivere la storia di tuo papà?

Questo è un libro che ho cavato dalla parte più profonda di me. E’ rimasto nascosto a lungo e per molto tempo pensavo che non l’avrei scritto. Fino a quando sono arrivato a compiere cinquant’anni e scoprire che il mio rapporto con il passato era mutato. Prima ero totalmente disinteressato, mi annoiavano i racconti dei vecchi. Non ero consapevole che soltanto grazie alla memoria di quello che siamo e del luogo da dove proveniamo, ciascuno di noi trae il senso profondo della sua vita. In più, non ero aiutato dalla mia famiglia. Quei sette anni, dal 1938 al 1945, sono stati considerati dai miei al massimo come un incidente, un guaio. Mio padre è un uomo di poche parole, riservato e quelle vicende l’hanno segnato. Non ultimo il fatto che suo fratello Stefano, mio zio, è morto proprio a causa di quella storia, nel 1946, poco tempo dopo il ritorno dalla Svizzera.

Nel libro sottolinei spesso quanto i tuoi si sentivano italiani

Perché lo erano! La nostra era una famiglia di italiani. Lo ribadisco perché non tutti riescono ad inquadrare gli ebrei come cittadini. A volte per ignoranza, a volte per poca conoscenza. In Italia gli ebrei sono stati sempre pochi e sono stati storicamente sempre molto integrati con la società italiana. Cosi si sentiva mio nonno Maurizio: talmente italiano a pieno titolo che si commuoveva ogni qualvolta sentiva l’inno di Mameli. In questo quadretto cosi bello, avrei potuto omettere qualcosa che mi dava fastidio ma per onestà non potevo dimenticare: mio nonno era un sostenitore della prima ora di Benito Mussolini. Era un signore molto gentile ed educato, di ottimi studi, però era rimasto folgorato, da giovane, da questo ex socialista che infiammava le folle, parlava di orgoglio nazionale e sosteneva l’idea di dare una spinta nuova all’Italia. Quando nel 1938 Mussolini decise di promulgare le leggi razziali, che sostanzialmente marginalizzavano la comunità ebraica presente in Italia da secoli, se non da millenni, per mio nonno è stato un colpo.

Cosa volevano dire le leggi razziali?

Anzitutto umiliazione, perché portavano gli ebrei a vivere una serie di privazioni che potevano anche sembrare non gravi ma che invece segnavano l’ingresso verso un razzismo di Stato, prologo di quello sterminio fatto poi dai nazisti. Concretamente voleva dire espellere, come è accaduto a mio papà, i ragazzi ebrei dalle scuole pubbliche. Espellere gli adulti dagli uffici pubblici e statali, vietare matrimoni misti, impedire di avere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana, avere forti limitazioni per le professioni intellettuali. Agli ebrei era impedito iscriversi ai circoli sportivi, possedere una radio e altre cose ridicole, come, ad esempio, allevare piccioni viaggiatori… Su queste limitazioni racconti un episodio che fa sorridere… Nonostante le leggi razziali i miei nonni, con mio padre bambino, decisero di trascorrere qualche giorno di vacanza in una pensione di Viareggio, dove erano soliti recarsi. Purtroppo però un ispettore, obbedendo agli ordini, con profonda tristezza, arrivò e li cacciò dalla struttura in quanto ebrei. I miei nonni tornarono a malincuore a casa, a Milano ma i vicini li convinsero a ripartire con loro per la Romagna, spiegando che era una terra accogliente e che non li avrebbero mai cacciati. I miei nonni, dubbiosi anche per il fatto che fosse la terra di Mussolini, fecero le valige e si recarono a Cattolica al seguito degli amici. Ebbene, i vicini avevano ragione, mai vacanze furono più tranquille… Certo fa un po’ ridere dire che a quel tempo il posto più sicuro per degli ebrei fosse “Cattolica”!.

I tuoi fuggono tardi…

È vero. La loro fuga è avvenuta nel 1943, quasi fuori tempo massimo. Chi non ha percepito il limite o ha sottovalutato la gravità del nazismo si è fatto deportare. I tedeschi occupanti chiedevano le liste dei non ariani per trasportarli nei campi di concentramento, Nel libro ricordo le trentasei ore che sono da adrenalina pura. Perché il 22 di settembre 1943 il prefetto di Como (dove si trovava la mia famiglia sfollata per i bombardamenti su Milano) entrò in un ristorante gestito da un simpatizzante dei partigiani e disse ad alta voce: “Oggi il comandante delle SS è venuto a chiedermi la lista degli ebrei. Non credo che gliela darò fino a domani mattina!” e continuò a parlare di altro. Questa notizia arrivò a mio nonno e lui – che nel frattempo aveva ricevuto la visita di altri parenti arrivati da Mantova che cercavano di scappare in Svizzera – organizzò in fretta e furia la fuga. Si appoggiò a degli spalloni, contrabbandieri che portavano in spalle la roba oltre confine, che conoscevano meglio i sentieri più impervi nei boschi. Non tutti loro erano persone per bene ma bisognava correre il rischio, affidarsi a loro. Ce la fanno ma al punto di arrivo vengono mandati indietro. La Svizzera è un piccolo paese che ha difeso per secoli la propria neutralità e che ha avuto al tempo stesso una tradizione di accoglienza: durante le guerre ha sempre accolto profughi ma in quegli anni l’ondata era cosi devastante che è vista costretta a fissare regole e quote giornalieri.

A quel punto cosa succede ai tuoi genitori?

Non hanno più soldi e devono tornare indietro, verso l’Italia. Mio nonno decide di andare in un piccolo paese dove conosceva persone. Arrivano, sotto la pioggia, con la loro roba e tutti li riconoscono come ebrei che hanno cercato di fuggire e non ce l’hanno fatta. E qui succede un fatto decisivo perché incontrano qualcuno che fa la differenza, che non gira la testa. In quel piccolo paese vive una persona, un tenente della guardia di finanza, che decide a proprio rischio e pericolo di fare un gesto di bontà volontaria. Si presenta a casa della famiglia che ha accolto i miei. Il nonno all’inizio crede che sia venuto ad arrestarli ma quando lo guarda negli occhi capisce che ci si può fidare. E questo signore li porterà nel punto giusto, nell’ora giusta, perché possano passare in Svizzera da un centro diverso rispetto a quello precedente. La mia famiglia deve tutto a questa persona che, essendo un finanziere, rischiava la fucilazione sul posto. Una persona che considera suo dovere umano mettersi dalla parte di questi sventurati. C’è una scena molto bella – ce l’ho bene in testa qualora questa storia diventasse un film – che mi ha raccontato mio papà che allora aveva quindici anni. Tutta la mia famiglia è già dall’altra parte del filo spinato, sotto la pioggia, in Svizzera e mio nonno, ancora nella parte italiana, che litiga con questo signore perché si vuole sdebitare dandogli i pochi soldi rimasti. L’altro non vuole e lo caccia indietro, lo invita a passare velocemente in Svizzera. Allora mio nonno si toglie dal taschino l’unica cosa preziosa che gli è rimasta: l’orologio d’oro con la catena e lo appende sul filo spinato mentre quest’altro se ne va. Per cui mio nonno dice che l’ultima immagine che conserva del tenente Emilio (questo era il suo nome) è lui che si allontana e questo orologio che penzola. Da comico non mi sfugge che essendo al confine, questo orologio d’oro se è stato trovato da uno svizzero è ancora oggi all’Ufficio oggetti smarriti mentre se a trovarlo è stato invece un italiano probabilmente è subito finito nelle tasche…

La storia poi continua…

In Svizzera viene evitato il peggio ma succede di tutto: i nonni vengono separati dai figli e i fratellini crescono lontani tra loro, con Stefano in un sanatorio e mio papà Vittorio in giro per i cantoni che si salva con lo studio matto e disperato. Dopo essere stato accusato ingiustamente di furto da una cartolaia che lo aveva in affidamento, gli svizzeri gli offrirono una borsa di studio per il ginnasio umanistico di Basilea, dove era un privilegio essere ammessi. Nel 1945, tornati tutti insieme nella Milano liberata, Vittorio aveva 17 anni e diede la maturità preparando tre anni in uno. Ha fatto l’avvocato. Mi ha trasmesso la saldezza d’animo, il temperamento forte, il senso del dovere.

Cosa fare per vigilare? Per impedire che ciò che è accaduto possa di nuovo accadere?

Ci sono segnali che fanno pensare che queste lezioni siano servite e ci sono segnali contrari. Non esistono ricette però credo alcune cose sia necessario farle: non aver paura della differenze, cercare di coltivare la parte migliore di noi. Credo sia importante anche essere consapevoli della propria identità. Solo cosi possiamo aprirci alla differenze dell’altro senza troppe paure. Mi insospettiscono coloro che si tirano fuori. Occorre invece essere attenti, documentarsi, sapere le cose, prendere posizione, andare oltre l’indifferenza. Perché, come dice un detto ebraico, “chi salva una vita, salva tutta l’umanità”. Ciascuno di noi può fare qualcosa. E nessuno può farlo al posto nostro.