D’estate la politica va a scuola

C’erano una volta le scuole di partito: la politica che pensava alla formazione dei futuri quadri dirigenti. Forse si potrebbe dire così: un’organizzazione che pensa di durare nel tempo investe in formazione, cioè in futuro. Ci si preoccupa della preparazione della propria classe dirigente perché è un bene collettivo, oltre che individuale. E le scuole – nella loro “pesantezza” organizzativa e temporale – sono una coerente risposta ad una visione di se stessi nel contesto, tra storia e futuro.

Esauritasi l’esperienza dei grandi partiti di massa, negli anni Novanta si è mossa la Chiesa. Sono stati anni importanti, perché le scuole e i corsi organizzati dalle diocesi hanno consentito la diffusione di una coscienza pubblica, la crescita di competenze pubbliche, la formazione di molti amministratori, soprattutto locali.

Diversamente da prima, non si trattava di un vero e proprio “investimento interno”, perché la Chiesa ha sempre lasciato libertà alle forme d’impegno politico successivo. Forse è proprio anche per questa libertà che ancora oggi si organizzano corsi di formazione, sia dalle diocesi sia da qualche congregazione più illuminata. E questo vale anche per le scuole organizzate da molte associazioni, sia di riferimento del mondo cattolico – le Acli sono una di queste – sia di vari altri riferimenti, cattolici e laici.

Nel periodo estivo non è raro scoprire l’inaugurazione di una summer school, così, in inglese: un modo (forse) contemporaneo per dire che si fa una scuola residenziale, concentrata in una manciata di giorni e sessioni nei mesi estivi. Certi “eventi formativi” non sono la stessa cosa, non si possono paragonare: indicano semmai un’urgenza, si collocano tra la motivazione e l’opinione. Gli eventi formativi aiutano a rafforzare la personalità pubblica di qualche leader, ma non hanno la pazienza di far crescere una classe dirigente.

La scuola, in politica, è invece assai importante e indica un desiderio di rimanere, di durare nel tempo. E aiuta anche a promuovere due idee. La prima è ricordare che la politica richiede una lenta acquisizione di contenuti, storie, valori. Fare politica senza categorie è pericoloso, perché si rischia di non governare i fatti (e le sorti degli uomini). La seconda è sperimentare che la politica richiede un confronto, una relazione – anche solo tra studenti, corsisti – una vita sociale, insomma. Imparare la politica, senza l’esperienza degli altri, cambia l’esperienza della politica.

Roberto Rossini