Giovani ma poveri, l’ipotesi di un welfare per la crescita

La legge di bilancio sembra ridare centralità a una categoria di italiani che non invecchia più. E, per certi aspetti – anche di giustizia sociale – va anche bene.

Eppure, rimane in credito nella creazione di una strategia per permettere ai più giovani di invecchiare serenamente. Il messaggio dovrebbe essere: “Giovani state sereni”. In realtà, si allarga il fossato tra le due classiche polarità demografiche, i giovani e gli anziani, che danno luogo al sempiterno conflitto generazionale. In quello combattuto qualche decennio fa vinsero i giovani. In quello attuale sembrano non perdere ancora quegli stessi giovani. I giovani di quel tempo costruirono una democrazia che offriva a tutti reali possibilità di una sostanziale uguaglianza.

Oggi, quella stessa democrazia offre ancora moltissime possibilità, ma… un po’ meno realtà. Occorre ristabilire equità tra le due categorie. I dati sono sotto gli occhi di tutti. Questa settimana tocca alla Caritas ribadire quanto già aveva accennato l’Istat a luglio, ovvero che la tendenza alla povertà è inversamente proporzionale all’età: ora sono i minori e i giovani il problema (e non l’opportunità…); sono ancora le famiglie con più figli ad avere difficoltà economiche. Sono ancora i giovani, anche quando lavorano, a non arrivare a fine mese e a trovare stabilità lavorativa.

La crisi ha penalizzato soprattutto loro, si pensi ai working poor prima e ai Neet adesso. Si pensi anche ai modelli previdenziali disponibili, che offrono qualche garanzia ai più anziani e solo qualche promessa ai più giovani. Se prendessimo in prestito le note categorie di Hirschman per immaginare le possibili controstrategie, allora ne troveremmo tre.

La prima è l’adattamento, si raccatta quel che (lavorativamente e previdenzialmente) c’è, lo Stato offre qualche bonus qua e là e poi cerca di appoggiarsi alla famiglia di origine, titolare di un welfare casalingo, in qualche caso perfino dotato (nei casi più fortunati) di qualche relazione sociale che permette un reale servizio di collocamento professionale. L’adattamento in genere funziona e garantisce a questo grande Paese di andare avanti, magari senza una grande spinta, ma con media soddisfazione della più parte dei soggetti.

La seconda è l’uscita, ed eccoci dunque alla fuga dei cervelli e alla corsa all’estero, dove si gioca con qualche possibilità di più, sia nei lavori più low profile sia per la capacità di valorizzare il merito senza dover attendere una trentina d’anni per il suo (eventuale) riconoscimento. L’uscita consente ad altri Paesi di godere di quanto investito dal nostro in termini di istruzione, sanità, assistenza e altro.

Ci sarebbe infine anche una terza ipotesi, quella più rivoluzionaria, ovvero un movimento sociale di giovani che pone la questione giovanile come questione politica. Ma al momento questa strada non pare realizzabile, sembra più… ripiegata. A meno di sorprese già nel brevissimo periodo.

In realtà la via maestra sarebbe la creazione di in un “welfare per la crescita”, che metta a proprio agio chi inizia oggi a costruirsi una carriera professionale e previdenziale. Ma, appunto, le risorse non sembrano andare in quella direzione. Forse è nello spirito di questi nostri tempi, il desiderio di una giovinezza infinita.

Forever young. Il problema è che amare la giovinezza – a volte – non significa amare i giovani. L’equità generazionale, e la giusta integrazione che deriva dal rapporto tra più giovani e più anziani, è una relazione che va ricostruita.

Roberto Rossini