Il Papa in Iraq. Il cardinale Luis Sako: “La nostra è una Chiesa martire”

Conferenza stampa sui lavori sinodali del 16 ottobre 2018 Cardinal Raphael Sako

di Daniele Rocchetti

 

“Siete tutti Fratelli”; è questo il motto – tratto dal Vangelo di Matteo – della visita di Francesco in Iraq il cui logo raffigura il Papa nel gesto di salutare il Paese, rappresentato in mappa e dai suoi simboli, la palma e i fiumi Tigri ed Eufrate. Il logo mostra anche una colomba bianca, nel becco un ramoscello di ulivo, simbolo di pace, volare sulle bandiere della Santa Sede e della Repubblica dell’Iraq. A sovrastare l’immagine, il motto della visita riportato in arabo, curdo e caldeo. A capo della chiesa cattolica irachena è il cardinale Luis Sako, dal 31 gennaio 2013 Patriarca di Babilonia dei Caldei. Mons.Sako qualche anno fa è stato ospite di “Molte Fedi sotto lo stesso cielo“. Nell’occasione gli feci questa intervista. A distanza di anni mantiene il valore e racconta, da un diretto testimone e protagonista, le vicende tormentate dei cristiani che papa Francesco incontrerà nei prossimi giorni.

Le ultime sono state altre settimane di paura per i cristiani iracheni, i più dimenticati di un Paese dimenticato, dove le bombe e gli attentati all’ordine del giorno meritano sui nostri giornali al più una breve notizia. Sempre meno numerosa,  chi può scappa all’estero, sempre più isolata, rinchiusa in enclave difese da muri, filo spinato e guardie armate, l’antica comunità irachena è di nuovo nel mirino del terrorismo. Se mai ne era stata fuori. La preannunciata partenza delle truppe americane ha portato a una nuova serie di attentati contro ministeri e sedi istituzionali. Nello stesso giorno a Mosul, nel Nord, due autobomba hanno colpito altrettante chiese e una scuola cristiana. Tra le vittime, un neonato e trentadue persone dilaniate, ferite alcune in modo gravissimo. Civili, innocenti come si usa dire bizzarramente, come se ci fossero vittime di attentati colpevoli.  Nell’Iraq liberato e conquistato alla democrazia si ammazza in modo diverso rispetto ai tempi di Saddam, quando le carneficine erano regolate dagli obiettivi del dittatore e del suo entourage. Anche allora i cristiani erano repressi, così come a turno tutte le altre componenti dell’articolata società irachena ma c’era un solo nemico, per così dire. Ora c’è pluralità di scopi e di obiettivi: ci si ammazza pro e contro la presenza americana; si ammazzano gli sciiti e i sunniti, ma anche i kurdi, nelle varie declinazioni. E ci si ammazza pro e contro il debole governo al potere.  Con il regime di Saddam Hussein i cristiani avevano imparato a convivere, protetti anche dalla pesante presenza di Tareq Aziz, cristiano caldeo, al governo. L’arrivo degli americani a Baghdad e la fine della dittatura sono coincisi con l’inizio di un incubo per i seguaci di Gesù, piombati nel baratro della persecuzione. Eserciti locali o bande al libro paga di gruppi sunniti o sciiti imperversano, come è noto, su tutto il territorio iracheno. Molti di questi rivolgono la propria criminale attenzione in special modo ai cristiani. Dal 1 agosto 2004 – prima bomba contro la chiesa di Sant’Elia a Baghdad – una serie micidiale di attentati si sono succeduti in molte città e villaggi, portando il computo dei morti a quasi mille, per tacere dei feriti, i rapimenti, gli allontanamenti forzati, estorsioni e minacce di ogni tipo. Nello specifico, si tratta di eliminare “non musulmani”, e pazienza se sono iracheni presenti nel Paese da centinaia e centinaia di anni. Anzi, da migliaia, perché rivendicano la loro conversione a opera della predicazione dell”apostolo Tommaso.

Per parlare di tutto questo, abbiamo incontrato monsignor Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk. Originario di Mosul, l’antica Ninive, monsignor Sako è un difensore delle minoranze minacciate e un sostenitore del difficile processo di democratizzazione e di riconciliazione in Iraq. Nel giugno del 2008 gli è stato attribuito il premio «Defensor Fidei», riservato alle personalità distintesi nell’evangelizzazione e nella difesa della fede in luoghi e situazioni ostili. Nel 2010 ha ricevuto il premio per la Pace «Pax Christi» e nel 2011 il premio per i diritti umani della Fondazione Stephanus, in Germania, per la sua battaglia a favore dei diritti umani in Iraq e il dialogo interreligioso fra cristiani e musulmani.

Monsignor Sako, qual è la situazione, oggi, in Iraq? 

Ci sono paura e speranza. Gli americani, ufficialmente, dicono che andranno via. La gente aspetta. Ma dopo? Il governo iracheno, sinora, non ha informazioni sicure. Si è creata, purtroppo, una mentalità “settaria”: sciiti, sunniti, cristiani, arabi, turkmeni, curdi… Questo, prima, non c’era. Gli iracheni sono stanchi: aggressioni, minacce, rapimenti, emigrazione…  Aspettano un miglioramento a livello non solo politico, ma anche di sicurezza. Diversamente dall’era Saddam, c’è tanta libertà. Il problema è: cosa significa la libertà senza sicurezza, che è la base di ogni progetto, di ogni vita? Temiamo che l’Iraq vada verso una scissione, una divisione interna. Il Kurdistan, a nord, è quasi uno Stato. Ha fatto grandi progressi quanto a sicurezza, lavoro, università, libertà. Anche gli sciiti, a sud, hanno fatto progressi. Rimane il centro, sunnita, che ha perso il suo peso. I sunniti hanno governato l’Iraq per secoli. Ora sono un po’ marginalizzati.

Da quanto tempo siete cristiani?

Il cristianesimo è entrato  in Mesopotamia a partire dalla fine del primo secolo. Secondo la versione più conosciuta, l’apostolo Tommaso è stato il primo ad evangelizzare quelle regioni attraverso il suo viaggio in India. Gli apostoli hanno predicato ovunque c’ erano comunità ebraiche (per ragioni di lingua e per la Bibbia) come in Iraq dopo l’esilio dei giudei in 587 prima di Cristo, e per questo motivo la nostra liturgia è una liturgia giudeo cristiana. L’anafora di Addai e Mari data del terzo secolo. La struttura delle nostre chiese è simile al tempio di Gerusalemme: bima, i veli… con un senso di rispetto per il mistero  e un rilievo particolare per la Resurrezione e il ruolo dello Spirito Santo. La nostra chiesa caldea – che nella liturgia ancora usa la lingua aramaica! –  è stata anche una chiesa missionaria. I cristiani caldei – laici commercianti e monaci – seguendo la Via della Seta  sono andati a predicare il Vangelo in India, nelle Filippine e in Cina.  Avevano un senso profondo della dimensione della loro fede cristiana e, al tempo stesso, dell’inculturazione: in Oriente, hanno chiamato il cristianesimo ” la religione della Luce”, Cristo “l’ Illuminato” e il vangelo “ka Perla”. Quando l’Islam è arrivato nel settimo secolo, i cristiani erano la maggioranza in Iraq e in Persia. Abdisho metropolita  di Nisibi († 1318) elenca una ventina di sedi metropolite con 200 diocesi. Oggi siamo una piccolissima minoranza.

Qual è la situazione attuale della comunità cristiana? 

Prima della caduta del regime, in Iraq, c’era quasi un milione di cristiani. Dal 2003 ad oggi la metà se n’è andata. L’esodo continua anche oggi; ma lento, perché non ci sono visti per l’Occidente. Noi cristiani abbiamo sofferto molto. Come tutti gli iracheni. Ma noi non costituiamo un rischio per il Paese, come sciiti, sunniti, fondamentalisti, che vogliono costruire uno Stato islamico, regolato dalla legge coranica. I cristiani cercano la pace, vogliono essere liberi. Dal 2004 ad oggi ci sono stati 905 morti cristiani e 53 chiese attaccate in tutto l’Iraq. Il mese scorso due chiese sono state distrutte a Kirkuk, una dopo l’altra.

Si può parlare di una persecuzione dei cristiani? 

Alcuni musulmani pensano che la loro religione sia l’unica vera. Che il Corano sia il Libro divino, Maometto l’ultimo profeta. Gli altri devono convertirsi all’Islam, altrimenti sono un obiettivo. Pensano che l’Occidente cristiano sia ateo, corrotto. anno paura di perdere la loro identità politica, la loro religione. Religione e politica nell’Islam sono unite. Anche quando c’è uno stato musulmano laico, come la Turchia, la religione è parte integrante della politica, non si  può separare. Dunque noi cristiani siamo assimilati all’Occidente, confusi come crociati, politeisti, infedeli… I fondamentalisti non vogliono la presenza cristiana. Ma generalmente la gente semplice è pacifica. Per molti mussulmani noi siamo “i fiori” dell’Iraq. Fiori che danno una testimonianza di pace e di perdono, di accoglienza e di fraternità.Poi c’è questa “mafia”, i criminali che cercano soldi. I cristiani sono un obiettivo facile. Quando uno viene rapito si paga, per noi cristiani la vita è un valore assoluto. Per gli altri gruppi c’è la tribù che difende i singoli. I cristiani non sono difesi da nessuno.

Si può definire la Chiesa irachena una Chiesa martire? 

La Chiesa caldea ha sempre avuto, suo malgrado, questo carisma, essere una Chiesa martire. All’epoca dei persiani, molti cristiani sono stati uccisi. A Kirkuk nella cattedrale, la “chiesa rossa”, sono stati uccisi, nel V secolo, migliaia di cristiani. Poi sono arrivati gli arabi e hanno forzato i cristiani a diventare musulmani, ne hanno uccisi altri. Poi i mongoli, gli ottomani… Anche oggi ci sono martiri. Un chierichetto di Kirkuk ha detto ai rapitori: “Potete fare di me ciò che volete: io non rinnegherò mai Gesù, non diventerò mai musulmano”. Poi gli americani sono passati di lì e lo hanno salvato. Un medico di Kirkuk è stato torturato al punto di uscire dalla prigionia mezzo morto, ma è rimasto cristiano. Potrei raccontare decine di queste storie, sconosciute a voi, cristiani d’Occidente.

Qual è il suo giudizio su quella che in Occidente abbiamo chiamato “la primavera araba”’

La primavera araba ha portato una forte richiesta di democrazia e di riconoscimento dei diritti della persona. M al di là della propaganda internazionale, questa idea è purtroppo qualcosa di formale, che appartiene a principi teorici e non alla realtà concreta. Gli occidentali e gli Stati Uniti vogliono imporre la democrazia con la forza negli altri  paesi nonostante il rischio di distruggere il paese, e senza una solida formazione del popolo sul significato della democrazia e dei diritti umani.  Ora come ora il modello europeo democratico non funziona nel Medio oriente: ci vuole molto tempo perché esso sia applicabile ed esige una nuova cultura  e la formazione dei giovani.

Cosa vi aspettate dal futuro?

Noi minoranze cristiane che viviamo in questi Paesi da sempre, sappiamo che per avere un futuro dobbiamo contare solo su noi stessi anche perché, la storia lo dimostra, l’Occidente è guidato solo da interessi economici e politici, legati al petrolio. Bisogna dire ai nostri concittadini musulmani in modo chiaro e senza ambiguità che noi siamo parte integrante di questa popolazione. Noi siamo cittadini originari, abbiamo contribuito molto alla formazione della cultura musulmana, durante il califfato degli omayyadi e degli abbasidi; siamo stati i protagonisti del rinascimento della nazione araba nel 18mo secolo. Oggi, vogliamo mantenere il nostro ruolo fianco a fianco. Dobbiamo dire loro: vi rispettiamo e vi amiamo perché Dio è amore e ci ama tutti. A nostra volta, vi chiediamo di rispettarci così come siamo e di rispettare la nostra religione. Solo così potremo fidarci gli uni degli altri e stringere sempre di più i nostri rapporti.