Italiani, brava gente. Forse. Certo non a Debre Libanos

Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana

Il pretesto fu l’attentato a Rodolfo Graziani, vicerè di Etiopia, chiamato anche il “macellaio di Fezzan”, avvenuto la mattina del 19 febbraio del 1937. Da poco più di nove mesi, la “campagna di Etiopia” aveva permesso agli italiani di conquistare un terzo del Paese e l’intenzione, dichiarata, era di prendere il controllo del resto con ogni mezzo, “compreso l’uso di 552 bombe caricate a pirite e fosgene autorizzate dal Duce”, documenterà lo storico Angelo Del Boca. 

Quella mattina di febbraio ad Addis Abeba si festeggiava la nascita di Vittorio Emanuele, primogenito di Umberto di Savoia. Durante la cerimonia, nel cortile del palazzo imperiale due giovani studenti di origine eritrea scagliarono contro il palco delle autorità otto bombe a mano uccidendo quattro italiani, tre indigeni e ferendo una cinquantina di presenti, tra cui lo stesso Graziani, colpito da 350 schegge. La reazione fu ferocissima. 

Angelo Dordoni, un testimone di quei giorni, così ha raccontato, trent’anni più tardi, ad Angelo Del Boca: “Nel tardo pomeriggio di quel giorno, dopo aver ricevuto disposizioni dalla Casa del fascio, alcune centinaia di squadre composte da camicie nere, autisti, ascari libici, si riversarono nei quartieri indigeni e diedero inizio alla più forsennata caccia al moro che si fosse mai vista. In genere davano fuoco ai tucul (un semplice edificio a pianta circolare con tetto conico solitamente di argilla e paglia, tipico di molte regioni africane, n.d.r) con la benzina e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire ai roghi. Intesi uno vantarsi di “essersi fatto dieci tucul” con un solo fiasco di benzina. Un altro si lamentava di avere il braccio destro stanco per il numero di granate che aveva lanciato.
Molti di questi forsennati li conoscevo personalmente. Erano commercianti, autisti, funzionari, gente che ritenevo serena e del tutto rispettabile. Gente che non aveva mai sparato un colpo durante tutta la guerra e che ora rivelava rancori ed una carica di violenza insospettati. Il fatto è che l’impunità era assoluta. Il solo rischio che si correva era quello di guadagnarsi una medaglia.”
Il bilancio finale parla di tremila etiopi uccisi nella capitale dal 19 al 21 febbraio 1937. Lo storico Giorgio Rochat ipotizza che la cifra potrebbe essere più alta e arrivare a seimila vittime, come farebbero pensare le carte del “Fondo Graziani”. 

Una strage pianificata 

Ma il Vicerè (che dopo la guerra sarà inserito nella lista dei criminali di guerra dalla Commissione delle Nazioni Unite) non si accontenta. È convinto che la chiesa copta ortodossa sia connivente con la resistenza e decide di colpirla nel suo centro spirituale più significativo: Debre Libanos, che si trova a ottanta chilometri a nord da Addis Abeba. Era (ed è) il più importante monastero d’Etiopia, il cuore della Chiesa etiopica, la più antica Chiesa africana con caratteri originali, maturati lungo i secoli.
Il cristianesimo etiopico – presente dal terzo secolo – è stato l’asse portante del secolare impero che il negus neghesti Haile Selassie incarnava. Il negus rappresentava il legame con la tradizione nazionale, era il protettore della Chiesa, formalmente dipendente dal patriarcato copto di Alessandria d’Egitto, ma in realtà sotto il controllo dei sovrani. Tra il 21 e il 29 maggio del 1937, le truppe italiane, comandate dal generale Maletti, dietro un preciso ordine di Graziani, massacrarono almeno duemila persone (tutte, ovviamente, disarmate) tra monaci, preti e pellegrini che si erano radunate nel monastero per la festa dell’Arcangelo Mikael e di San Tekle Haymanot.
Sarà il più grave crimine di guerra dell’Italia. Un  eccidio pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Insieme alla strage, una serie di danni collaterali: trafugamento di beni sacri, la gran parte dei quali mai più ritrovata, deportazioni di centinaia di sopravvissuti in campi di concentramento o in località italiane, asservimento totale al regime coloniale della Chiesa etiopica. 

Il disprezzo verso i cristiani ortodossi 

Quattro anni fa, un magnifico docufilm di Antonello Carvigiani trasmesso da Tv 2000 (si può vedere integralmente qui: raccontò, attraverso testimonianze e documenti inediti, la strage. Ora è uscito un testo di Paolo Borruso (Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia (Laterza, pagine 256, euro 20) che merita di essere letto e che, di nuovo, rimette al centro una storia che è stata a lungo troppo rimossa.
È un libro rigoroso, documentato, che mostra come l’accanimento trovò terreno fertile in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Soprattutto, evidenzia che, nonostante la vulgata che ancora oggi circola, la politica coloniale fascista sia stata, nei fatti, rivelatrice del volto oscuro del regime e della logica di violenza e di odio che lo pervadeva. 

La Chiesa a fianco dell’impresa coloniale 

L’introduzione del volume è di Andrea Riccardi, storico che lavora da tempo, su una delle pagine più buie della storia italiana. In un intervento di un paio di anni fa, Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ebbe a dire:
“Io credo che gli storici abbiano mostrato il grado di collaborazione nella mobilitazione della Chiesa cattolica con l’”impresa” di Etiopia.La Chiesa ha vissuto durante la guerra il massimo d’identificazione col regime, benedicendo la sua azione bellica. Il cattolicesimo italiano non si limitò a tacere.  Ci fu un disprezzo aggressivo nei confronti della Chiesa etiope. Fu l’atteggiamento della maggioranza dei vescovi, dei responsabili della Chiesa italiana. Ci sono molte manifestazioni, prime fra tutte le parole del cardinale Schuster sul fatto che i soldati portavano la croce in Africa. Sono stato criticato per averlo ricordato, ma le parole sono sue. Tutto questo, secondo me, tolse l’ultima remora ai soldati italiani che davvero in questo caso non si rivelarono “brava gente”. Non fu questo, invece, l’atteggiamento di Pio XI, il quale non condivideva l’euforia italocattofascista di quell’”impresa”. Ai cristiani etiopi non è stata riconosciuta la qualità di cristiani, e nemmeno forse quella di uomini, ma di sottouomini”. 

Le scuse. Meglio tardi che mai

Alla presentazione del libro, avvenuta a Roma lo scorso febbraio, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini aveva annunciato l’intenzione di recarsi in Etiopia “a rendere omaggio alle vittime e alla verità” e l’impegno dell’Italia “ad assumere le sue responsabilità di fronte alla storia, con tutto quello che ciò comporta”. Anche il cardinal Bassetti, a nome dei vescovi italiani, ha chiesto scusa al popolo etiope e alla chiesa e ortodossa. Perché, se fu il regime fascista a compiere l’eccidio di monaci, ragazzi e famiglie, fa specie la condiscendenza dei cattolici italiani e di gran parte dei loro vescovi nei confronti dell’impresa coloniale fascista. Ricordarselo – anche attraverso una conoscenza accurata di ciò che avvenne in Etiopia e a Debre Libanos – è il primo passo per evitare di ripetere, in futuro, abbracci troppo stretti con dottrine e idee che sanno, nonostante quanto dicono di affermare – davvero poco di Vangelo.