La Catalogna, i referendum in Italia e il modello Quebec

Il residuo fiscale è una delle definizioni con le quali presto dovremo fare i conti. Si tratta di un tecnicismo balzato agli onori della cronaca grazie alla richiesta d’indipendenza della Catalogna e poi richiamato anche da noi in Italia in occasione dei prossimi referendum di Lombardia e Veneto. In sostanza, è la differenza tra tutte le entrate che le Pubbliche Amministrazioni statali e locali prelevano da un determinato territorio e le risorse che in quel territorio sono spese.

In questa lunga fase di crisi, è soprattutto sugli interessi economici che si fondano i numerosi appelli alla mobilitazione popolare da parte delle forze indipendentiste.

Ma non basta un richiamo plebiscitario a garantire la democraticità di tali spinte, specie se queste tendono a realizzarsi al di fuori del quadro costituzionale, come è avvenuto in Catalogna. L’appello al popolo, in contrapposizione alla Costituzione, è un pericoloso strappo alla legalità, che è difficile da ricomporre, come dimostra il tira e molla di questi giorni tra Madrid e Barcellona.

La ricerca di soluzioni negoziali è invece possibile quando le spinte autonomiste sono governate. È un esempio quanto avvenuto per il Québec, che nel 2006 si è visto riconoscere dalla Camera dei Comuni lo stato giuridico di Stato all’interno del Canada unito.

Al netto delle questioni propagandistiche ed elettorali, che rischiano di inquinare una discussione di merito, i referendum promossi dalle regioni Veneto e Lombardia e l’iniziativa della Regione Emilia Romagna ripropongono, in forme e termini certamente diversi tra di loro, il tema dell’autonomismo.

La riforma costituzionale del 2001 rende possibile per le Regioni avviare determinate procedure per “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Si tratta del regionalismo differenziato, che realizza un’autonomia asimmetrica interna al Paese tra le diverse Regioni a statuto ordinario, valorizzando le peculiarità territoriali e le capacità di autogoverno.

La richiesta di maggiore autonomia risponde anche al sentimento di delusione figlio della convinzione che l’Italia non riesca a portar mai a termine alcuna riforma, come è avvenuto il 4 dicembre dello scorso anno.

Ma le spinte autonomiste non possono virare in derive locali altrimenti si rischia di minare la coesione sociale e il sentimento di unità nazionale. Un procedimento che prevede la ricerca di intese per una maggiore autonomia non può che basarsi su una leale collaborazione tra i livelli istituzionali. Se non vuole risultare inutile.

Roberto Rossini