L’Islam è una Religione di Pace?

Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana

Maledetti terroristi, sono Chaimaa Fatihi, ho 22 anni, sono italiana musulmana ed europea. Vi scrivo perché possiate comprendere che non ci avrete mai, che non farete dell’Islam ciò che non è, non farete dell’Europa un luogo di massacri e non avrà efficacia il vostro progetto di terrore. Vi scrivo come musulmana per dirvi che la mia fede è l’Islam, una religione che predica pace, che insegna valori e principi fondamentali, come la gentilezza, l’educazione, la libertà e la giustizia. Voi siete ciò che l’Islam ha contrastato per secoli, voi siete nemici, voi siete coloro che spargono sangue di innocenti, di giovani, anziani, uomini e donne, bambini e neonati. Non ho paura dei vostri kalashnikov, dei vostri coltelli e armi, perché da musulmana vi rinnego, vi combatto con la parola, con l’informazione, con la voce di chi vive quotidianamente la propria fede, dando esempio dei suoi insegnamenti.

Islam e pace

Così, all’indomani degli attentati di Parigi, Chaimaa Fatihi scrisse questa “lettera aperta” ai terroristi islamici pubblicata su numerosi quotidiani italiani. A ribadire quel legame tra Islam e pace che molti si ostinano a negare e a riconoscere. Nella mente di tanti occidentali l’Islam evoca piuttosto la guerra, la lotta, il terrore ed è ben lontano dal venire associato a ciò a cui la sua radice rimanda. Perché islam viene dalla radice s-l-m che in arabo forma “salam” e in ebraico “shalom”, cioè pace. Esso quindi significa pace e rimanda alla pace del cuore e della mente che si ottiene quando ci si sottomette a quella verità ultima del mondo che è Dio.

L’Islam e l’incontro difficile con la modernità

Non si vuole certo negare i fatti sanguinosi ed efferati compiuti da uomini che si dicono mussulmani né l’incapacità dell’Islam contemporaneo e delle sue guide spirituali di gestire l’incontro con la modernità. Si vuole solo ricordare che l’Islam è una grande tradizione spirituale con quattordici secoli di storia e con oltre un miliardo di fedeli. L’idea che a questa religione sia essenzialmente connaturata la violenza è profondamente sbagliata da un punto di vista teorico e soprattutto è tremendamente nociva da un punto di vista pratico, perché non fa che suscitare a sua volta violenza. Da qui il gorgo che può finire per risucchiare irrimediabilmente la vita delle giovani generazioni.

È vero che nel Corano vi sono pagine violente e che la storia islamica conosce episodi violenti, ma questo vale per ogni fenomeno umano. La Bibbia ha pagine di violenza inaudita e sia l’ebraismo sia il cristianesimo conoscono il fanatismo religioso e la violenza che ne promana. Lo stesso vale per l’hinduismo con l’ideologia detta hindutva. Persino il più mite buddhismo conosce oggi episodi di intolleranza in Sri Lanka e Myanmar.

“Vie islamiche alla nonviolenza”

Per questo è prezioso il testo che Zikkaron, la casa editrice collegata alla Piccola Famiglia dell’Annunziata di don Giuseppe Dossetti, ha recentemente dato alle stampe.  “Vie islamiche alla nonviolenza” è il titolo di questo libro – da leggere – che mostra la nonviolenza propria dell’Islam, mentre noi conosciamo di più quella delle altre grandi religioni e culture. L’autore, Jawdat Said, nato nel 1931, è siriano. Ha studiato in Egitto e in Arabia Saudita. È fervente musulmano, intellettuale impegnato, persuaso nonviolento, critico delle idee prevalenti nei popoli musulmani, arrestato più volte e impedito di insegnare. Dal 2013 è rifugiato a Istanbul.

Nella Prefazione, Adnane Mokrani, teologo mussulmano tunisino che vive in Italia e insegna alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e al Pontificio Istituto di Studi Arabi e di Islamistica, mostra vari aspetti dell’opposizione dell’Islam ad ogni violenza. Pur senza dimenticare le tradizioni guerresche, presenti nella tradizione islamica, come in altre tradizioni, compresa quella cristiana, egli ricorda le figure di Abdul Ghaffar Khan, il “Gandhi musulmano” che precedette Gandhi con la propria azione nonviolenta, e di Ramin Jahanbegloo,  filosofo della nonviolenza a Harward . Tra i discepoli musulmani di Gandhi c’è anche Maulana Abul Kalam Azad, che, come Said, fonda la nonviolenza nel cuore del pensiero religioso islamico. Questi pensatori musulmani, più che in uno Stato per i musulmani, vedevano nello stato laico la maggiore garanzia di uguaglianza e giustizia.

Jawdat Said presenta, con rigorosa lucidità, l’opzione del pacifismo come quella più coerente con il messaggio coranico. La radice di questa tesi la trova nel Corano (5,28), là dove Abele reagisce con parole ferme al fratello Caino che poi lo ucciderà: “E se stenderai la mano contro di me per uccidermi io non stenderò la mano su di te per ucciderti perché ho paura di Dio, il Signore dei mondi”. Per Said tutti i profeti nel Corano si comportano esattamente come il figlio di Adamo, mostrando “tenacia a pazientare di fronte alle offese altrui senza rispondere all’offesa con l’offesa” e rifiutandosi di intraprendere azioni violente. Coerentemente,

nell’Islam non si arriva a governare con la forza, né all’inizio né una volta ottenuto il successo, né ora né in futuro, e chi vuole arrivare a governare si deve sforzare di convincere le persone a costruire una comunità ben guidata che scelga il suo governo spontaneamente.

Nel Corrano si legge: «Non vi è costrizione nella religione» (Cor. 2,256) e questo, per Jawdat Said, significa che nell’Islam “la religione non si ordina con la forza dei muscoli o delle armi, o con la distruzione, bensì con la forza delle idee e con la rettitudine”, aiutando gli altri a liberarsi dall’ingiustizia e dalla costrizione,

proteggendo il dissidente e contribuendo a creare un clima di libertà di pensiero senza coercizione.

Le idee sbagliate muoiono da sole

La domanda da farsi allora è perché pare essere prevalente il modello del fratello assassino.  Secondo Jawdat Said, alla base della violenza vi è sempre una “sconfitta ideologica”: coloro che praticano la costrizione nella religione «non fanno alcun assegnamento sugli uomini, non credono che se le persone fossero lasciate libere di valutare le idee, potrebbero anche scegliere le loro». Per questo, l’unica strada percorribile si fonda sulla mancata reazione violenta alla violenza dell’aggressione. Di più: bisogna

lasciare che le idee sbagliate muoiano di morte naturale. Se non abbiamo capito questo, significa che non abbiamo idee che possano competere con la storia. L’errore ha il diritto di vivere: se non gli do il diritto di vivere, nemmeno io avrò lo stesso diritto.