Mille detenuti a S. Pietro: cosi com’è, il carcere tradisce la Costituzione

Oggi 6 novembre, a Roma, si incontrano due eventi, due tradizioni culturali, due popoli uniti nel riproporre una questione che sta a cuore ad entrambi, il carcere e i carcerati. C’è una marcia che nasce evocando Marco Pannella e una piazza che si raduna ascoltando papa Francesco: a volte, più che da dove si viene, conta il dove si va, i temi che accomunano. E questo è uno di quelli, perché la questione dei detenuti è grave e complessa, e chiama in causa almeno due fatti, uno materiale e uno politico.
Il fatto materiale s’incide nella carne viva delle persone.

Nelle carceri italiane i suicidi hanno una frequenza elevata; gli atti di autolesionismo sono in crescita, così come il consumo di psicofarmaci e di droghe; il tasso di sovraffollamento è alto e quello di recidiva altissimo. Se questi sono i fatti, andare in carcere non è un modo per rieducare. E l’ergastolo, implicitamente, è la sua dichiarazione fallimentare: l’ammissione di un limite insuperabile (il Papa, con un’affermazione pesante ma coerente, dice che l’ergastolo è una pena di morte occulta).

Il fatto politico riguarda la nostra idea di giustizia, di libertà. Cosa significa oggi essere giusti? Come comminare pene che siano immediate quando servono, certe nella loro esecuzione e giuste rispetto alle vittime e agli esecutori? Come essere giusti verso tutti: la nostra cultura offre ancora a tutti una seconda possibilità? Il problema è che noi stessi viviamo un’idea elastica e flessibile di giustizia, un’idea adattabile, sartoriale, tagliata a seconda dei casi. Non siamo tutti eguali, e questo lo sappiamo, ma parafrasando Orwell qualcuno è meno uguale di altri. I destini diventano casuali.

Un’ultima considerazione. Il carcere è un’istituzione nata secondo uno scopo preciso, tra cui il rieducare, ma gli esiti appaiono spesso poco coerenti. Necessiterebbe di una riforma… istituzionale. E dopo tutta questa enfasi sulla Seconda parte della Costituzione, non sarebbe male se (ogni tanto) riparlassimo della Prima – nel nostro caso l’art. 27 – e chiedere come esso si possa tradurre in opere, oltre che in mattoni e sbarre. Sia chiaro, occorre mettere in sicurezza la società, difendersi da chi compie reati, proteggere la vita e i beni di tutti. Ma per far questo i mezzi sono più d’uno, e la pena carceraria potrebbe essere riservata a chi compie reati gravi, contro il patrimonio e soprattutto contro la persona.

Ci sono tanti strumenti di misura alternativa e tante buone pratiche tentate e realizzate. Perfino opere artistiche, come quella volta in cui i Taviani realizzarono un film coi detenuti di Rebibbia per mettere in scena il dramma di Giulio Cesare. Come finì il copione, la storia ce lo dice e basta leggerla. Come può finire il destino dei detenuti possiamo ancora scriverlo, assieme ad un serio dibattito pubblico su un’idea di giustizia.

Roberto Rossini