Perché il Recovery Plan non recuperi tutto, per non recuperare nulla

Recovery sta letteralmente per recupero, non a caso il Presidente Conte ha parlato a più riprese di Fondo di recupero a proposito del recovery found.

Il recupero di “qualcosa”, presuppone però che qualcosa si è perduto, che bisogna colmare un ritardo, una disuguaglianza, una distorsione o un errore del passato.  Non esiste insomma recupero, senza “oggetto” da recuperare.

Il recovery plan, così come il Governo lo ha presentato nelle linee generali, pare soffrire di una sindrome di questo tipo, che grida un po’ vendetta se pensiamo all’enormità di risorse di cui l’Italia disporrà e del peso che queste scelte avranno su almeno tre generazioni future.

Una responsabilità pesante per un Governo retto su una maggioranza parlamentare non certo di unità nazionale, con addosso il peso di scelte con effetti sulle prossime 4/5 legislature e anche oltre.

Con lo stile di chi non vuole fare un processo alle intenzioni a nessuno, ma contribuire a dare un “oggetto” di vero recovery, bisogna domandarsi come impatta la progettazione di 209 miliardi di euro (che per avere l’idea chiara per quelli come me che sono nati con la lira, sono 418milioni di miliardi di vecchie lire, pari a numerose finanziarie degli anni più duri per la finanza pubblica italiana) sui grandi “oggetti di recupero” del nostro Paese, la cui priorità appare inderogabile dopo anni di abbandono che hanno incancrenito problemi che sono diventati ipercronici: “i” sud, i bambini e le giovani generazioni, la salute, quali emblemi del fenomeno disuguaglianze del Paese Italia.

Un piano di recupero non può prescindere dal colmare le disuguaglianze ataviche del nostro Paese.

Ci focalizziamo su “i” sud, al plurale, perché non si può pensare di fare di tutta l’erba un fascio, ma anche perché dobbiamo evitare, per dirla con le parole del Prof. Viesti, la tentazione di chiamare sud tutto ciò che non ci piace del paese, centrando invece ad esempio l’attenzione sui ritardi infrastrutturali in tutti i luoghi in cui il mercato nell’immediato non richiede un investimento tale da necessitare un intervento pubblico che in quanto pubblico deve investire, anche dove le diseconomie immediate non lo suggerirebbero. Ci soccorre, per comprenderci, l’esempio di scuola del sistema di erogazione dell’energia elettrica o di telecomunicazioni nel nostro Paese, che nel processo di nazionalizzazione dei servizi pubblici vedeva quel palo che approvvigionava una casetta sperduta in montagna, al pari di un appartamento nelle metropoli urbanizzate, reinvestendo il margine del servizio dei centri urbani. Un piano di recupero non può prescindere da tutte quelle simboliche casette in cima alla montagna, prima di pensare ad esempio all’innovazione e a dare velocità a chi è già avanti in un percorso di crescita fatto di grattacieli super moderni. Si tratta insomma di non fare ancora una volta parti uguali tra diseguali per dirla con Don Milani e di “recuperare” le disuguaglianze che, per alibi o per scelta non importa, l’Italia ha accumulato passando per decine di governi.

Con questo approccio, tra gli altri “oggetti” prioritari da recuperare ci sono i bambini e le giovani generazioni in generale, archiviando per sempre il tempo che ha visto (e vede ancora) oltre 1milione e 200.000 bambini in povertà assoluta (dato pre-pandemia e senza tener conto dell’altra drammatica povertà educativa che coinvolge fasce più ampie di bambini), terribile ma dura realtà che una grande massa di denaro ben speso può risolvere sul principio che una serie definita di standard e servizi non possono mancare a nessun bambino, dal corredo scolastico ai farmaci da banco, dal libro di testo nelle scuole dell’obbligo di ogni ordine e grado a un’attività extra scolastica di socializzazione garantita, ecc. Che recovery sarebbe, se le generazioni indebitate non beneficiassero del loro indebitamento per recuperare disuguaglianze mai colmate nella direzione dell’universalismo dei diritti insindacabili dei minori in Italia? 

E poi c’è il tema del diritto alla salute, simbolo noto e drammatico delle disuguaglianze tra territori, dove il luogo in cui nasci conta rispetto alla tua speranza di vita (dati INAPP) e al set di prestazioni a cui puoi accedere. Vero è anche che la pandemia ha però dimostrato che nemmeno i territori (e quindi i cittadini) più “fortunati”, senza un sistema integrato di salute di prossimità, fatto di ambulatori territoriali e di comunità, telemedicina, una diffusa ed efficace assistenza domiciliare e prima di tutto una riformata medicina di base, sono esenti quando imperversa l’inedito e l’imprevedibile come lo tsunami pandemico.

Non mi pare che la filosofia del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” sia ispirato alle osservazioni di cui sopra. L’auspicio è però che sia un documento di discussione e non già chiuso, che coinvolga il Parlamento oltre all’esecutivo, ma che veda anche una grande e reale partecipazione del popolo attraverso i corpi intermedi che possa riportare le esigenze del paese reale a correttivo di scelte che paiono squilibrate rispetto alle priorità. Del resto abbiamo eletto nelle scorse elezioni politiche le nostre rappresentanze parlamentari a cui abbiamo affidato le nostre sorti “ordinarie”, quelle “straordinarie” non potevamo prevederle. Pretendere pertanto la partecipazione popolare quando si raschia il barile dei prestiti, dell’indebitamento e dei contributi a fondo perduto, non mi pare però un’opzione da percorrere, ma piuttosto un obbligo morale inderogabile a cui ottemperare.

 

Gianluca Budano

Consigliere di Presidenza Acli con delega alle politiche familiari e alle politiche sanitarie