Ruffini “Riscriviamo tutte le regole del fisco. Basta giungla delle tasse”

Intervista al direttore dell’Agenzia delle Entrate di Sergio Rizzo per La Repubblica del 25 agosto

 

Dunque al fisco mancano almeno 24 miliardi. Evaporati in soli sei mesi. Per l’avvocato Ernesto Maria Ruffini, tornato alla fine di gennaio alla guida dell’Agenzia delle Entrate, il momento forse più difficile per riprendere in mano il timone del fisco. Ma con un’economia ferma tre mesi nemmeno un miracolo avrebbe evitato tutto questo. Un disastro, Ruffini. «Meno di quello che si poteva prevedere, mi creda». Difficile da credere. «Lo sa che più della metà di quanti avevano rateizzato le imposte, pur avendo la possibilità di non pagare concessa dalla legge, invece ha continuato a pagare? Evidentemente l’immaginario collettivo non dice la verità: siamo un popolo migliore di quello che tutti pensiamo di essere». Non per questo l’atteggiamento degli italiani verso le tasse si può definire cambiato. L’evasione fiscale e contributiva è sempre sopra i 100 miliardi l’anno. «Certo. Ma se gli italiani devono cambiare l’atteggiamento nei confronti del fisco, anche il fisco deve cambiare atteggiamento nei confronti degli italiani». Cosa significa, Ruffini? «Che ora non possiamo perdere l’occasione. Questo è un anno terribile ma anche straordinario, in cui ci si offre l’opportunità di riflessioni molto profonde. Come in guerra». Un bel paragone. «Il sistema tributario repubblicano si cominciò a pensare già quando la seconda guerra mondiale non era ancora finita. Oggi dobbiamo fare lo stesso, gli effetti sociali ed economici dell’epidemia sono stati simili a quelli di una guerra. Bisogna cominciare a pensare a un sistema fiscale per il dopo coronavirus, ma per farlo è necessario prima di tutto fare ordine: soltanto così potremo decidere come agire». Mettere ordine? «Proprio. Il nostro non è un sistema fiscale. È una giungla impossibile da comprendere per chiunque, del tutto incontrollabile. E questo perché nel corso degli anni le leggi Finanziarie l’hanno letteralmente terremotato, creando frammentazioni assurde. Adesso c’è da rifare l’edificio ed è, ripeto, un’occasione da non perdere. Il coronavirus ci offre la possibilità di fare la grande riforma del fisco, come nel giugno 1969: quando sono nato io». Da dove si comincia? «Dalle fondamenta, ovviamente. Innanzitutto bisogna fare cinque testi unici per riunire organicamente una materia immensa, di cui nemmeno gli esperti conoscono i confini». Una specie di Blob «Pensi che non si conosce neppure con esattezza il numero delle leggi in materia fiscale attualmente in vigore: dovrebbero essere circa ottocento. Di mestiere faccio l’avvocato tributarista, ma non ho mai conosciuto nessuno che possa dire di conoscere alla perfezione il nostro sistema tributario». E una volta fatti i testi unici, che cosa succede? «Cinque testi unici, dicevo. Per le imposte dirette, le indirette, l’accertamento, la riscossione e il contenzioso, cioè la giustizia tributaria. Una volta fatto ordine, ecco che bisogna iniziare a sfrondare. E cambiare. È arrivato il momento di mettere non i tributaristi, ma ogni cittadino nelle condizioni di conoscere il sistema fiscale. Il patto fiscale, del resto, è alla base del patto democratico e non permettere a ogni cittadino di conoscere il contenuto di quel patto è un pessimo segnale dello stato in cui versa la democrazia». Magari bisognerebbe anche tagliare un po’ le tasse, che dice? «Ridurre le imposte in un Paese come il nostro dove l’imposizione è così elevata sarebbe doveroso. Ma la semplificazione del rapporto fra fisco e cittadini è altrettanto importante. Non è soltanto una questione di aliquote, né di maquillage. Un sistema vessatorio e difficile da interpretare rappresenta un freno micidiale per gli investimenti, anche dall’estero. Come segassimo il ramo sul quale siamo seduti». Si sente troppo spesso quella parola “semplificazione”E sempre più spesso a sproposito. La Confartigianato qualche anno fa ha calcolato che spuntava una complicazione fiscale alla settimana. Altro che semplificazioni. «Vero. Ma sarebbe ingiusto negare i passi avanti che sono stati fatti. L’erogazione dei contributi a fondo perduto decisi dal governo sono stati amministrati dall’Agenzia delle Entrate con semplicità e velocità. Così come la sospensione di tutte le procedure di riscossione è stata possibile perché negli anni scorsi abbiamo investito in un radicale processo di digitalizzazione». Le risulta che il cantiere della grande riforma cui lei allude sia già aperto? «Mi risulta che la riforma dell’Irpef sia sul tavolo del governo e del ministro Gualtieri in prima persona, perché le imposte dirette mostrano tutti i segni del tempo». Tre anni fa, quando era per la prima volta a capo del fisco, raccontò a Repubblica che avrebbe voluto eliminare la dichiarazione dei redditi. È ancora dello stesso avviso? «Più che mai. La dichiarazione precompilata ha fatto passi avanti. E nel 2021 avremo anche la precompilazione della dichiarazione Iva. Un passo ancora successivo potrà essere quello della dichiarazione dei redditi dei titolari di quelle partite Iva. Sono tappe di un percorso. Se non ricordo male in quell’occasione delineai un progetto che avrebbe impegnato un’intera legislatura e oggi non siamo certo all’anno zero». Mi faccia capire: ritiene che entro la fine naturale della legislatura, sempre che la scadenza venga rispettata, si possa arrivare al risultato? «Assolutamente sì». La prendo in parola. «E fa bene. Se mi volto indietro e guardo a com’ era il fisco appena qualche anno fa, davvero faccio fatica a riconoscerlo. Adesso c’è la fattura elettronica, e ha portato alle casse dello Stato un beneficio enorme. Dal primo gennaio del prossimo anno partiranno anche gli scontrini fiscali elettronici. Per non parlare dei cambiamenti in vista per i titolari delle partite Iva». Soltanto i lavoratori invisibili, e purtroppo sono tantissimi, hanno sofferto in questo frangente più di loro. «Vede, quando facevo anch’ io parte di quel mondo sarei stato ben lieto se mi avessero detto che un giorno non avrei più dovuto pagare acconti su somme che non avevo ancora guadagnato, ma soltanto pagare mese per mese sui denari realmente incassati». Il minimo sindacale, per un Paese civile. «Prima o poi ci si doveva arrivare. Un passo alla volta»