Francesco a Barbiana. Il potere dei segni

Articolo di: Daniele Rocchetti, responsabile nazionale Vita cristiana Acli

Per chi come me ha letto, studiato ed amato don Lorenzo Milani, mai è passato per la testa che un giorno nel piccolo cimitero di Barbiana, potesse arrivare un Papa. Una visita – quella che Francesco terrà in forma privata il prossimo 20 giugno – che mette un sigillo sulla vicenda di un prete (perché questo è stato anzitutto il priore di Barbiana) certamente controverso. Da vivo come da morto.

Oggi, soprattutto dalle nostre parti, si dimentica facilmente che don Milani in vita si scontrò con i superiori ecclesiastici (il cardinal Florit in testa ma non solo) che non solo lo calunniarono ma lo perseguitarono mentre la cultura laica tendeva ad esaltarlo, sia come “prete contro” sia come testimone attivo di una scuola diversa, meno attenta ai Pierini figli di papà e più ai Gianni proletari, emarginati a causa di un ambiente familiare che non li aiutava per nulla a crescere in coscienza, responsabilità, padronanza di parola, fino a fare di lui un precursore del Sessantotto.

Oggi la situazione appare in qualche modo rovesciata: mentre più o meno tutti nel mondo ecclesiale si riempiono la bocca proclamando virtù e santità di don Lorenzo, la cultura laica tende a mettere in dubbio la validità della sua esperienza e a darne giudizi drasticamente negativi, anche con falsificazioni di dati. Penso alla polemica avviata anni fa sulle pagine di Repubblica da Sebastiano Vassalli secondo il quale don Milani fu un “maestro improvvisato e sbagliato”, “manesco e autoritario”, autore di un testo, Lettera ad una professoressa, “più adatto a essere impugnato e mostrato nei cortei che a essere letto e meditato”. Penso, più recentemente, alle affermazioni di Cesare Segre e Paolo Mastrocola che imputano al priore di Barbiana e alla sua pedagogia una grande responsabilità nei riguardi dei guasti dell’istruzione attuale.

D’altra parte, lo stesso don Lorenzo sapeva quanto fosse elemento di contraddizione. In una magnifica pagina di Esperienze Pastorali, un testo di sociologia religiosa dove rilegge i sette anni trascorsi a San Donato di Calenzano, scrive cosi: “Io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione, né riguardo, né tatto. Mi sono attirato contro un mucchio di odio, ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti di conversazione e di passione del mio popolo. Nel popolo di quel mio amico (escluso il periodo strettamente elettorale) si battaglia accanitamente solo per Coppi e per Bartali. Nel mio si battaglia pro o contro un metodo di apostolato, un modo di fare il prete o di affrontare una questione morale o sindacale. Quel mio amico secondo me insegna poco e a pochi, io invece avrò seminato zizzania, ma insegno anche a chi mi darebbe fuoco”.
 
Tensione, rigore. Sta qui, soprattutto, la “scomodità” di don Milani che avverto ogni volta che devo parlare o scrivere di lui. E’ scomodo perché è un credente che, in nome del Vangelo e della fedeltà al povero colto nella singolarità, misura i nostri ritardi, i nostri compromessi che, a poco a poco, abbiamo chiamato mediazioni, i nostri opportunismi che abbiamo elevato sempre più a necessari. Una scomodità che proviene dalla sua dedizione radicale, consumata senza un attimo di sosta fino alla morte. Con lucidità padre Turoldo amava dire che don Lorenzo era “la voce della coscienza che ti denuda”.

Così scrive don Milani in una lettera a don Ezio Palombo: “Ponete in alto il cuore vostro e fate che sia come fiaccola che arda. Io penso che su questo punto non bisogna avere pietà, di nessuno. La mira altissima, addirittura disumana (perfetti come il Padre!) e la pietà, la mansuetudine, i compromessi paterni, la tolleranza illuminata solo per chi è caduto e se ne rende conto e chiede perdono e vuol riprovare da capo a porre la mira altissima…”. Ed ancora: “Ecco dunque l’unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare in alto (per noi e per gli altri) e   sfottere   crudelmente non chi è in basso, ma chi mira in basso. Rinceffargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza. Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce. E splendenti e attraenti solo per quelli che hanno Grazia sufficiente da gustare altri valori che non siano quelli del mondo”.
 
In queste settimane mi sono divorato le duemilacinquecento pagine del testo uscito per Mondadori nella Collana dei Meridiani, Don Milani, Tutte le Opere. Alberto Melloni lo ha curato e in un’intervista ha detto che da quest’opera “esce un ritratto di un prete incandescente ma lontano anni luce dallo stereotipo del prete ribelle. Un prete perseguitato da una Chiesa che ha sempre amato e non ha mai voluto lasciare”. Lo storico dell’Officina di Bologna ricorda quanto i gesti di don Milani siano stati profetici. E che tutto questo aiuta a capire papa Francesco: la predicazione del Vangelo nelle periferie, in uscita, non vuole dare parole d’ordine o ideologiche alla Chiesa. Ha un senso, per il papa, se esprime l’autenticità cristiana, il gesto profetico come tale, costi quel che costi.
 
Forse proprio qui stava la difficoltà ieri a capire il prete fiorentino. Forse qui sta la difficoltà oggi (sempre più crescente e rumorosa nella Chiesa) a capire il pontificato del papa argentino. Ma comprendiamo bene perché Bergoglio – generando stupore anche nei tantissimi che sono cresciuti alla scuola di don Lorenzo – voglia andare nel minuscolo cimitero ai piedi del monte Giovi e pregare davanti ad una tomba di pietra bianca, senza foto, con scritto “sac. Don Lorenzo Milani n. 27-5-1923 m. 26-6-1967 Priore di Barbiana dal 1954”.