A 100 anni dalla sua nascita, un ricordo di Don Cesare Pagani

Le ACLI, associazione essenzialmente laicale , hanno sempre avuto accanto a loro figure sacerdotali importanti che le hanno accompagnate e sostenute nel loro cammino, anche nelle loro vicende più difficili e dolorose. Fra queste figure di sacerdoti spetta in modo particolare quella di mons. Cesare Pagani, di cui ricorre il centenario della nascita – era infatti nato il 10 maggio 1921 a Dergano, alle porte di Milano- che fu l’ultimo assistente generale delle ACLI nominato ufficialmente dalla Santa sede, e che fu pienamente coinvolto e partecipe dei travagli delle ACLI  e di tutto l’associazionismo cattolico nella fase delicata segnata dall’evento conciliare e dalle grandi agitazioni studentesche ed operaie del 1968 e 1969.

 

Ordinato sacerdote nel 1944 dal beato cardinale Schuster, don Cesare, dopo una prima esperienza in un collegio arcivescovile e poi in una parrocchia della periferia milanese, venne trasferito nel 1950 a Saronno dove gli venne affidata la cura del locale Circolo ACLI: fu lì in sostanza che Pagani, figlio di lavoratori, proveniente da un quartiere di povera gente, seppe inverare la sua vocazione incontrando dei laici molto attivi e molto consapevoli del loro ruolo di cristiani impegnati nella società. Di tale consapevolezza don Pagani era assolutamente partecipe , al punto tale che, quando nel dicembre del 1953 (gli anni duri della Guerra fredda…) il Circolo ACLI di Saronno partecipò attivamente ad un grande sciopero indetto dalle forze sindacali, e venne per questo accusato dai benpensanti di fomentare la lotta di classe di tipo marxista, il giovane sacerdote scrisse sul bollettino del Circolo : “Aclisti, vi conosco e vi ammiro! Più che per le molte attività che compite, più che per i sacrifici cui vi sobbarcate, meritate il mio compiacimento sacerdotale per l’ansia cristiana che vi anima : quell’anima che vi alle volte tanta tristezza nel vedere le vostre azioni male interpretate; quell’anima che vi la fame e la sete della giustizia, ma in un anelito di reciproca comprensione con tutti”.

 

Le sue attitudini e capacità non passarono inosservate agli occhi del nuovo Arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, che lo volle prima Assistente provinciale delle ACLI varesine e poi lo chiamò a Milano affidandogli importanti incarichi nell’Azione cattolica ed in Curia. In particolare, nel 1961 a don Pagani venne affidato il compito di dirigere il neonato Ufficio Diocesano  di Pastorale Sociale, che nelle intenzioni del Cardinale avrebbe dovuto relazionarsi con tutte le associazioni di lavoratori, dirigenti ed imprenditori di matrice cristiana, pur preservandone la specificità, fungendo da raccordo con gli assistenti ecclesiastici delle varie associazioni e da garante della conformità della prassi di tali associazioni ai principi dell’insegnamento sociale della Chiesa.

 

È  interessante notare come un anno dopo, scrivendo al card. Montini per un primo bilancio dell’attività del nuovo Ufficio, don Pagani, evidenziava il rischio di venire vissuto dai sacerdoti e dai laici come “ l’uomo ‘curiale’ , burocraticamente chiuso nel suo settore, che ispezione e controlla di tanto in tanto, in mezzo ad un clero che non comprendeva le profonde novità di una realtà sociale stravolta dall’industrialismo in cui la persona non ha solo il problema della vita aziendale, già carica di ombre, ma ha il più e più profondo problema di una vita concepita in modo diverso: proclive al tecnicismo e al razionalismo tecnico, attratta dal benessere, psicologicamente molto impegnata da ondate di pressione massiccia e da una gamma formidabile di sfumature…”.

 

Proprio questa finezza di analisi, unita ad una grande sensibilità pastorale, spinsero Montini, divenuto Papa, a scegliere don Pagani come nuovo Assistente centrale delle ACLI: la vigile attenzione che il nuovo Pontefice aveva sempre avuto, a  Roma e a Milano, verso il Movimento aclista lo spingeva infatti a volere una persona di sua incondizionata fiducia che “correggesse” (come ebbe esplicitamente a dire in un colloquio riservato con il Segretario della DC Mariano Rumor – egli stesso uno dei fondatori delle ACLI – nel settembre 1964) quell’associazione che tante preoccupazioni suscitava al punto tale che qualcuno parlava apertamente di un suo possibile scioglimento.

 

Non furono quelli anni facili per don Pagani, che trovava a Roma un gruppo dirigente guidato dal Presidente nazionale Livio Labor, figura di straordinario dinamismo politico e  profondità spirituale, e che all’interno dell’Ufficio assistenti doveva misurarsi con personalità ruvide come quella del dehoniano Aurelio Boschini (così affezionato alle ACLI da voler essere seppellito avvolto nella bandiera del Movimento), di grande finezza intellettuale come il gesuita Domenico Pizzuti (tuttora felicemente vivente ed operante nelle sua Napoli), o assolutamente singolari come il cremonese don Luisito Bianchi, che sviluppò negli anni una teologia della gratuità ancora tutta da esplorare ed approfondire.

 

In quegli anni di veloci cambiamenti sociali ed ecclesiali, il ruolo di don Pagani fu particolarmente scomodo, poiché da un lato doveva farsi carico delle pressioni crescenti da parte della Santa sede e dell’Episcopato (pressati a loro volta dalla Democrazia cristiana, che mal sopportava le crescenti critiche al partito e al Governo da parte aclista), e dall’altro era conscio dell’assoluta buona fede di dirigenti e militanti che cercavano di vivere la loro fede in una realtà sociale sempre più incandescente. Un clima di cui erano partecipi anche numerosi sacerdoti, se è vero ad esempio che nel documento conclusivo dell’annuale convegno degli assistenti delle ACLI svoltosi nella primavera del 1969 a Rho sotto la presidenza di don Pagani si affermava che la contestazione in atto “va al di degli interessi di classe per diventare presa di coscienza universale, radicale rifiuto di ciò che non è a favore dell’uomo, in una dimensione che sembra andare al di dello stesso orizzonte sociale per porre la domanda sul senso originario dell’esistenza. Un anno dopo, lo stesso Pagani scriveva che “Il servizio della classe lavoratrice è l’obbligo fondamentale delle ACLI: ma, proprio per questo, si sente la necessità di acquisire maggiore potere per influire più efficacemente nella società; gli uomini devono crescere secondo la loro dignità e capacità: ma per tale crescita non bastano le iniziative educative, perché le strutture e le condizioni esterne ostacolano pesantemente lo sviluppo dell’individuo”.

 

All’ XI Congresso nazionale delle ACLI, svoltosi a Torino nel maggio 1969 , che sancì la fine del rapporto collaterale fra il Movimento aclista e la DC don Pagani intervenne con parole non equivoche in sostegno alla svolta: “Se le ACLI si impegnano sempre più seriamente a fare la verità sul mondo del lavoro italiano e sul suo progresso futuro, esse debbono per forza rinunciare a vincoli pregiudiziali e a sudditanze inibitrici. Le ACLI non possono non affermare la loro autonomia da organismi e orientamenti esterni alla loro vita, e quindi sovrapposti alla loro libera ricerca di verità nel mondo del lavoro.”

 

Errori ed incomprensioni, e crescenti preoccupazioni politiche ed ecclesiastiche, segnarono la gestione di questa svolta, ed alcune frasi estrapolate dalla relazione del Presidente nazionale Emilio Gabaglio al Convegno di Vallombrosa del 1970 diedero la sensazione che le ACLI volessero qualificarsi in una linea ideologica e politica di stampo socialista: ciò provocò una richiesta di chiarimento da parte della CEI, che nel maggio del 1971 dichiarò che le ACLI non rientravano più “tra quelle associazioni per le quali il decreto Apostolicam actuositatem prevede il ‘consenso’ della Gerarchia”. Il mese successivo Paolo VI volle aggiungere a questa dichiarazione la sua sofferta “deplorazione” per gli orientamenti assunti dalla dirigenza aclista.

Per conseguenza, don Pagani e gli altri assistenti vennero sollevati dai loro incarichi, e si lasciò alla discrezione dei singoli Vescovi la valutazione sul mantenimento o meno di una presenza sacerdotale accanto alle ACLI: don Cesare, in particolare, sospettato da molti negli ambienti ecclesiastici di essere stato fin troppo consenziente rispetto a certe scelte del Movimento si ritrovò, come ebbe a dire egli stesso, “in cassa integrazione”. Da lì lo trassero l’amicizia e la stima di Paolo VI, che lo nominò Vescovo di Città di Castello e Gubbio , e volle consacrarlo personalmente in San Pietro; nel 1981 Giovanni Paolo II lo trasferì a Perugia- Città della Pieve come arcivescovo.

La sua memoria di “apostolo e testimone luminoso”, secondo le parole del card. Gualtiero Bassetti, suo successore sulla cattedra di san Costanzo, è rimasta viva e grata fra gli aclisti e fra coloro che sono stati suoi diocesani poiché egli insegnò un cristianesimo cosciente, vissuto, immerso nella realtà terrena, persuaso che il cristiano scommette il destino totale della sua responsabilità nel segmento di storia che gli è assegnato, e non può non prenderne coscienza , non pensarci, restare inerte e vivere indifferente e lontano rispetto ai problemi del mondo in cui vive.

Un perfetto esempio, il suo, di quella “Chiesa in uscita” su cui tanto insiste papa Francesco.

 

(La foto è a cura dell’Archivio Storico delle Acli)