Adriano Ossicini, il ricordo di Domenico Rosati

 

Ossicini: il ceppo comune del pluralismo cattolico

 

Quando, nell’ormai remoto 1974 mi dedicai alla scoperta delle radici (politicamente) pluralistiche dell’esperienza delle Acli, l’incontro con Adriano Ossicini si impose con l’evidenza dei fatti. Nella presidenza provvisoria delle Acli, costituita nel giugno 1944, Ossicini rappresentava la componente “cattolico comunista” o, se si vuole, la “sinistra cristiana”. Era seduto accanto al gruppo dei “cristiano Sociali” di Gerardo Bruni e, naturalmente, a quello della Democrazia Cristiana, decisamente maggioritario e tendenzialmente egemone anche per la guida carismatica di Achille Grandi.

La coabitazione in verità fu di breve durata. Né trovò udienza la proposta di escludere dalle cariche associative gli esponenti dei partiti. L’assistente Mons. Civardi chiese un’eccezione per Achille Grandi, democristiano sì, ma fondatore delle Acli. Poi rapidamente, il bacino di presenza dei non democristiani si prosciugò fino al prevalere di quello che nella storia delle Acli sarebbe stato chiamato “il collateralismo” ossia il legame preferenziale e pre-garantito con il partito di maggioranza relativa.

La situazione sarebbe durata, appunto, fino al congresso di Torino (1969), riducendo il sistema dei rapporti politici delle Acli alla sola unità nella Democrazia Cristiana, con l’unica variabile consentita che era quella delle correnti interne. Quando, con il Concilio furono rimossi gli ostacoli teorici sul tema del pluralismo, ci si rese conto della durezza delle resistenze politiche interessate, compresa quella più propriamente cattolica, da cui presero origine le tensioni che alimentarono gli scontri degli anni ‘70, con le relative scissioni, sempre sconfitte ma sempre alimentate dall’esterno.

La figura di Adriano Ossicini non scomparve tuttavia dall’orizzonte delle Acli. A differenza del suo compagno d’avventura, Franco Rodano, egli preferiva chiamarsi “cristiano-non democristiano” piuttosto che “cattolico- comunista”. E inoltre aveva dalla sua un accumulo di meriti resistenziali, compresa la resistenza romana di porta San Paolo e la epidemia-beffa (il morbo K) escogitata per mettere al sicuro, sull’Isola Tiberina, gli scampati ebrei dalla razzia dell’ottobre 1943 nel ghetto di Roma. Ossicini infatti era anche medico e affermato psichiatra, dedito in particolare alle patologie infantili. Dell’Ospedale Fatebenefratelli aveva fatto un nucleo di resistenza, non solo passiva, verso i tedeschi che occupavano Roma.

Fu durante la mia permanenza in Senato che scoprii i legami profondi tra Ossicini e Andreotti. E fu quest’ultimo a consentirmi la scoperta quando mi invitò, nel 1998, alla commemorazione di un Congresso della Fuci che si era tenuto in Orvieto nel 1938 al quale entrambi avevano preso parte.

            “Ci vediamo sotto casa mia a Corso Vittorio, poi andiamo ad Orvieto dove ci aspetta Ossicini”, aveva detto Andreotti, il quale prese posto sul sedile anteriore della Giulietta, accanto al guidatore. A me toccò quello alle sue spalle, accanto all’uomo della scorta, o meglio al mitra che teneva sulle ginocchia. E con l’avviso che affabilmente il poliziotto mi trasmise: “Il Presidente riposerà fino all’area di Servizio ”Giove” dove prenderemo un caffè; poi gli potrà parlare”.

Come facesse Andreotti a “dormire a comando” era un mistero per me. Ma soprattutto non riuscivo a rendermi conto di come riuscisse a passare dal sonno profondo alla veglia più vigile. Lo dimostrò nel convegno con l’esibizione di una documentazione analitica molto dettagliata sulle spese sostenute per la partecipazione all’evento di tanti anni prima: tanto per i pasti, tanto per gli alberghi, tanto per lo svago  negli intermezzi congressuali.

Dal canto suo, Adriano Ossicini aveva preparato una bordata di informazioni politiche dominate da una chiara impronta antifascista e riassunte nella formula programmatica di “organizzare la speranza”, come dire riattivare un principio significativo di orientamento nel pieno del consenso al regime, leggi razziali comprese.

L’amicizia tra Andreotti e Ossicini era proverbiale. Il primo non si era mai esposto politicamente (e militarmente nella resistenza) quanto il secondo. Ma era sempre pronto a intervenire attraverso un sistema efficacissimo di relazioni tutte le volte che le circostanze lo esigessero, si trattasse di favorire la scarcerazione di un gruppo di partigiani o di far pervenire ai detenuti le prelibate delizie di una torta che solo la mamma di Ossicini sapeva fare.

Si recitava attorno a me, quel pomeriggio orvietano, un lessico familiare in cui stentavo a ritrovarmi e che però sentivo autentico e impegnativo. Rendeva l’idea di un insieme di valori da professare non disgiunti da una rete di accorgimenti tattici posti a salvaguardia dell’incolumità dei protagonisti. Era il comune denominatore della Fuci, il ceppo originario di Andreotti e Ossicini, con la rega di Giovanni Battista Montini.

Anni prima, scorrendo le pagine de “Le Acli delle Origini” di Giuseppe Pasini, e poi i verbali delle presidenze provvisorie delle Acli del 1944, mi ero imbattuto nella manifestazione ante litteram del pluralismo delle scelte politiche dei cattolici italiani, circostanza che ebbe corso…legale finché la regola dell’unità nel voto non venne imposta come criterio universale.

Ma già allora risultava chiaro che, indipendentemente dalla scelte diverse compiute da Andreotti come democristiano doc e da Ossicini come “cristiano non democristiano”, c’era uno spazio di contiguità in cui si trasfondevano le ricerche e le sperimentazioni del dopoguerra che andava cercando spazi più definiti per le proiezioni politiche dei credenti.

E d’altra parte non sembrava possibile che la polemica politica degli anni del centrismo potesse travolgere del tutto i lasciti della stagione immediatamente precedente, in cui molti fermenti operavano in vari ambiti dello spazio politico e promettevano, al di là degli scontri della guerra fredda, un ritorno alle categorie della razionalità politica che intanto si ordinavano nella Costituzione.

Mi sono sempre chiesto come mai i due “maggiorenni” di quel pomeriggio orvietano avessero pensato a me per un confronto come quello che riuscimmo a realizzare e che ora mi affiora in mente nelle nebbie di un vago ricordo personale. Ed ho pensato che il comune denominatore potesse essere rinvenuto nella figura di Montini, ad un tempo protagonista della Fuci e patrocinatore delle Acli.

Al Senato Ossicini era rimasto legato anche dopo aver cessato il mandato parlamentare. Aveva un posto fisso all’ingresso esterno della bouvette e intercettava chiunque andasse a bere un caffè. Impossibile evitarlo; e comunque era sempre un piacere incontrare la sua lucidità e la sua ironia romanesca.

 

Domenico Rosati