Cosa resta? Resta la bellezza? Un dialogo con un “monaco nella città”

A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana

Vézelay resta per me uno dei luoghi più belli di Francia. Una basilica splendida dedicata a Maria Maddalena, capolavoro dell’arte romanica borgognona, classificata patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. È ciò che rimane di un’antica chiesa abbaziale cluniacense, salvata dalla rovina nel diciannovesimo secolo da Violletle-Duc. Quando oltrepasso la porta d’ingresso e entro nel nartece, oggi in restauro, resto ogni volta stordito dalla bellezza: un portale centrale con un timpano eccezionale; una navata luminosa dalle maestose proporzioni e decorata con un centinaio di splendidi capitelli scolpiti; in risposta agli elementi romanici, un transetto e un coro in stile gotico. Sotto il coro si trova un’antichissima cripta di epoca carolingia.

Da qualche anno, ad occuparsi della chiesa e dei numerosissimi turisti e pellegrini che la visitano (da qui parte uno degli itinerari del Cammino verso Santiago), sono i fratelli e le sorelle delle Fraternità di Gerusalemme. Una realtà nata dopo il Concilio da un prete, Pierre-Marie Delfieux, già cappellano degli studenti della Sorbona, poi eremita per due anni nell’Assekrem, nel deserto del Sahara. Tra le dune care a Charles de Foucauld, Pierre Marie maturò l’idea di fondare “nel deserto delle città” fraternità monastiche urbane per vivere pienamente la fedeltà a Dio dentro il nostro tempo. In accordo con il cardinal Marty, a Parigi, nella festa di Ognissanti del 1975, nasceva la prima comunità. Da quel momento, fratelli e delle sorelle, laici e consacrati, hanno iniziato un’avventura spirituale che, in pochi anni, ha coinvolto duecento tra fratelli e sorelle; una ventina di questi sono italiani. Monaci che non hanno clausura circoscritta da mura perché il loro perimetro è la città. Nel cuore della città, nel cuore di Dio.

Nei giorni scorsi ho visitato Vézelay con un gruppo di amici. Abbiamo incontrato il priore della comunità, frère Pierre-Emanuelle. Questa è la trascrizione del nostro dialogo.

Ci può riassumere il vostro carisma?

Credo sia quello di affermare che Dio c’è anche dentro le nostre città, dentro la Babele di storie e di lingue. Che non c’è bisogno di andare, come un tempo, nel deserto o nella foresta per trovarlo ma di scovarlo in mezzo agli uomini. Vorremmo essere testimoni dell’Assoluto dentro le caotiche strade del nostro tempo.
Per noi la ricerca di Dio passa attraverso il volto dell’uomo perché Dio si è fatto uomo. L’uomo che incontriamo nella liturgia ma anche nella vita quotidiana, in metropolitana e sul posto di lavoro. Cercare Dio nei luoghi dell’uomo, credere che Dio c’è e che esiste nel cuore di ogni persona e della storia che abitiamo: questo è il nostro carisma.

Come vi mantenete?

Lavorando, come tutti. Qui a Vézelay si tratta di un lavoro particolare, segnato dall’accoglienza nelle tre case e dalla gestione del negozio posto accanto alla Basilica ma a Parigi come a Strasburgo, a Firenze e a Roma, a Montreal e a Colonia, cerchiamo lavori part time per essere solidali con la maggior parte degli uomini d’oggi che percepiscono un salario e per guadagnare da vivere senza arricchirci. Quando siamo nati nel 1975 non c’erano problemi di lavoro, oggi non è così e questo ci obbliga ad una nuova comprensione delle questioni legate all’occupazione.
Per noi il lavoro è importante ma non è tutto. Lo scopo è quello sì di mantenerci ma anche di incontrare le persone, costruire relazioni.

Non possedete nulla, neanche gli edifici dove vivete…

È vero. Dappertutto siamo in affitto e non abbiamo proprietà. È stata, sin dall’inizio, un’intuizione del nostro fondatore. È una scelta di libertà: non siamo costretti a stare in un posto. Un segno di vicinanza con le tante persone che non sono proprietarie e un gesto di solidarietà con quanti fanno più fatica. Dietro a tutto questo, vi sta la convinzione che siamo pellegrini e il pellegrino è sempre in viaggio, sempre libero di potersi spostare. Non è attaccato ad un luogo, ad un posto, ad una casa. In questo senso, la nostra scelta custodisce un desiderio di libertà: essere tutto a tutti.

Per molte persone oggi la liturgia è più un ostacolo che un ingresso, una porta che si chiude piuttosto che si apre. Per voi è il cuore della vostra vita…

In questo siamo molto vicini alla tradizione monastica. Preghiamo tre volte al giorno e cerchiamo di custodire la cura della preghiera, del canto, del silenzio. Anche in questo caso, lo scopo non è solo quello di pregare in momenti particolari della giornata ma di integrare la preghiera dentro la vita. Per imparare ad essere sempre in ascolto, in ascolto del Signore che parla in ogni situazione. Per convertirci all’amore, ogni giorno. Viviamo in comunità con persone che non abbiamo scelto e volersi bene è un esercizio che chiede la capacità di aprire orecchi e cuore al Signore che ci stuzzica e che ci mette accanto, molto spesso, il fratello che non sceglieremmo.

Come è nata la sua chiamata?

Ho cercato a lungo la verità. Sentivo la Chiesa vecchia e avevo abbandonato la fede. Un giorno sono arrivato nella chiesa di St. Gervais a Parigi dove siamo presenti sin dall’inizio e ho incontrato una comunità in preghiera. Semplicemente uomini e donne che stavano cantando i salmi. Per me fu come se si fosse aperto il cielo, un dialogo tra cielo e terra. Lì, ho trovato una risposta alla mia ricerca di assoluto. Pian piano il Cristo è tornato nella mia vita: era vicino, mi aspettava. Vangeli, Parola ed Eucarestia a poco poco hanno preso forma e valore. A distanza di anni, sento che ogni giorno è meraviglia, stupore, e so che è vero. Me lo dico sempre di più pensando al futuro, alla vita che sarà dopo. E sono qui, con i miei fratelli e le mie sorelle, perché voglio già iniziare a vivere la bellezza che sarà la vita eterna. Qualche volta mi chiedono: “E se non fosse vero?”. Rispondo che la vita che ho scelto, ciò che vivo ogni giorno, è in accordo profondo con il mio essere. Non c’è un’altra via, non c’è un altro Signore. Cristo è sempre di più il mio tutto.

Ha vissuto molti anni nella comunità di Firenze, ora è a Vezelay. Com’è il contesto francese dove la fede è relegata nell’ambito privato?

Sì, il contesto è molto diverso da quello italiano anche se ho la percezione che stia cambiando molto in fretta anche da voi. In ogni caso, non so se è un male. Qui in Francia i cristiani sono pochi ma la fede è una scelta. Si è cristiani per convinzione più che per tradizione. Questo vale per tutto: per il battesimo dei propri figli come per il matrimonio. È una sfida ma non credo che bisogna essere preoccupati. Il Signore non ha bisogno di eserciti, ama il piccolo resto. Come, in fondo, era la Chiesa degli inizi. Il Signore c’è, comunque e nonostante tutto. E questo dovrebbe bastarci.
Lasciamo frère Pierre-Emmanuelle e ci rechiamo in chiesa per partecipare ai vespri. Mentre salgo per il borgo medievale, penso alla risposta che frère Pierre-Marie Delfieux il fondatore dei “monaci nella città” mi diede quando, durante un’intervista, gli chiesi perché le fraternità sono insediate in luoghi di grande bellezza. Mi rispose così: “L’uomo post moderno è divenuto estremamente critico e scettico, indifferente e distante. I dogmi non gli interessano più, la morale lo indispone, i discorsi lo infastidiscono, il proselitismo lo offende. Tutto è sospetto, mal compreso, caricaturale. Cosa resta allora? Resta la bellezza. La bellezza trascende l’uomo. Essa non ha linguaggio, parla ad ogni altura, non veicola un proclama di fede o un valore morale ma essa parla. Parla al cuore e allo Spirito, parla in silenzio e in profondità e, poco a poco, rivela una presenza. La presenza nascosta ma quanto segretamente ricercata di colui che è ne è la sorgente. Mozart, Bach, Beethoven, essi stessi – come molti artisti – parlano di Dio, spesso senza neanche nominarlo espressamente. Non potremmo dire la stessa cosa della liturgia? Essa canta la bellezza. Così pure la Parola, la preghiera. Se lo ce ne rendessimo conto!”