Una biografia di Adriana Zarri. Da leggere
Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana
Forse pregherò fuori, anziché in cappella. Amo il tempio desacralizzato del mondo, proprio perché amo il mondo e lo trovo cattedrale degnissima di Dio. Forse mi stenderò sul prato, a braccia aperte come a chiamare il cielo. Certo verrà Selù a leccarmi le mani e i tacchinotti bianchi e domestici a beccarmi il vestito. Si lasciano prendere il collo e baciare sulla testina rossa e ossuta. Non sono belli ma fanno tenerezza. Distrazioni? Sì, potrebbe essere; ma non necessariamente. Possono essere anche il tessuto del nostro incontro con Dio.”
Così si esprimeva Adriana Zarri, una credente singolare, libera, coraggiosa, impertinente; una donna che riusciva a trovare semi di Vangelo anche là dove parevano non esserci. Per questo, la sua avventura spirituale, di grande profilo, oggi rischia di passare sotto silenzio. Merito dunque a Mariangela Maraviglia di restituircela con spessore e profondità con questa biografia da poco pubblicata dal Mulino di Bologna: “Semplicemente una che vive. Vita e opere di Adriana Zarri”. Un libro che merita di essere letto e che riesce a mostrare, tra le pieghe delle biografia, indicazioni preziose per la navigazione incerta di questo tempo. Ho posto a Mariangela, intervenuta lo scorso anno a Molte Fedi a presentare un suo testo su padre David Maria Turoldo, alcune domande. Questo è il dialogo.
Semplicemente una che vive. Da dove nasce questo titolo?
È un titolo suggerito da Adriana Zarri stessa. In uno dei suoi libri più noti, ripubblicato in Un eremo non è un guscio di lumaca (Einaudi, 2011), scriveva di voler essere ricordata semplicemente come «una persona che vive». Nel «semplicemente vivere» indicava la chiave della sua vicenda interiore, rifiutava ogni retorica sulle «opere» o sulla «testimonianza», riecheggiando la spiritualità del quotidiano, la «santità senza aureola» che anima intense esperienze cristiane del Novecento.
E il tuo interesse per Adriana Zarri?
La leggevo su «Rocca» fin dagli anni Settanta, attendevo con gioia le sue «Lettere dall’eremo» e compravo i suoi libri. Mi affascinava il suo cristianesimo radicale, in cui riconoscevo la novità dirompente del Concilio Vaticano II e il suo orizzonte contemplativo, il suo aver fatto della ricerca di Dio il cuore della sua vita. Così, quando amiche teologhe e poi l’Associazione Amici di Adriana Zarri mi hanno invitato a occuparmi di lei, ho accettato volentieri.
Ben presto riscontravo che, a differenza di altre figure protagoniste della storia della Chiesa del Novecento, era stata completamente dimenticata. Ho voluto presentare una prima narrazione, storicamente fondata, di una vita che incrocia e rispecchia tanto cristianesimo novecentesco e insieme vale e affascina per la sua intensità, persuasione, bellezza. La mia ricerca precedente, che tu ben conosci: David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza (1916-1992) (Morcelliana 2016), giungeva dopo decenni di studi dedicati a padre David; questa si propone come una prima ricognizione che spera di favorire un interesse, e perciò offre nelle note e nella bibliografia tutti gli elementi per successivi approfondimenti.
Dove sta, dal punto di vista teologico, la novità di Adriana rispetto alla teologia del tempo?
Scriveva lei stessa che la sua era «una teologia impura, contaminata, compromessa col vivere», lontana dall’accademia e nata «per via intuitiva» dalle passioni, dalla storia, dall’esperienza della vita. Partiva dal «frammento» per recuperare sintesi più vaste, da lei espresse nei diversi generi letterari, anche creativi, «artistici», che sentiva propri. Scrisse infatti romanzi, meditazioni, poesie, racconti di vita. In questi scritti, grandi tematiche di ecclesiologia e teologia morale e spirituale, come anche il vissuto di liturgia, preghiera, quotidianità, erano inquadrate all’interno di una propria elaborazione teologica trinitaria e mistica.
Nella sua visione lo scambio amoroso di Padre, Figlio, Spirito, attraverso l’atto della creazione e il dono dell’incarnazione, si trasmette all’intera realtà umana e cosmica, informandola di sé e coinvolgendola in uno «stesso movimento d’amore». Questo pensiero trinitario dava fondamento al suo orizzonte: originava categorie interpretative, per prime il «pluralismo» come ricchezza della diversità, e il «ricevere» come apertura «femminile» all’accoglienza e all’ascolto. Nutriva un suo particolare sguardo mistico e «trasfigurante», capace di percepire una «totale solidarietà» tra Dio, uomo, cosmo; di riconoscere il «seme divino sepolto nella nostra mortalità»; di leggere nel proprio contingente «provvisorio» i segni e la pienezza dell’«assoluto».
Che idea di Chiesa ha sostenuto, spesso anche con interventi forti?
Adriana fu pienamente partecipe di quel cristianesimo di denuncia e di testimonianza che ha animato buona parte del Novecento. Un cristianesimo che aveva voci vive e conosciute nella Nouvelle Théologie che tutti leggevano; nei «disobbedienti» don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani; nei padri Ernesto Balducci e David Maria Turoldo, a cui qualcuno l’accostava come voce “profetica”; nelle molte esperienze comunitarie che si avviarono in quegli anni. Personalità ed esperienze di cui Adriana scrisse nei tanti articoli di collaborazione a giornali e riviste – tra questi «Il Gallo», «Il Regno», «Politica», «Settegiorni», «Rocca» – che furono, anche quelle, palestre ed espressione della sua militanza ecclesiale.
La Chiesa, scriveva in un libro pubblicato negli anni del Concilio Vaticano II, è «madre» ma è anche «figlia» di ogni credente, il quale ha il «dovere» di concorrere alla sua edificazione, anche criticando le patologie che ne oscurano il volto (La Chiesa nostra figlia, La Locusta, 1962). Dopo secoli di «integrismo», «clericalismo», «immobilismo» occorreva impegnarsi in prima persona per riconsegnare la Chiesa alla verità del Vangelo e alla fedeltà alla storia. In nome di questo impegno non si sottrasse a nessuna delle battaglie del tempo. Caldeggiò il superamento dell’autoritarismo e la promozione di forme di gestione collegiale del potere; auspicò la fine di compromessi e collusioni con la politica; discusse su celibato dei preti, sessualità, ruolo dei laici e delle donne, autonomia della legge civile dalla legge religiosa. Denunciò quelli che le apparvero arbitri e valorizzò scelte evangelicamente esemplari facendosi paladina di un «cattolicesimo adulto» e pensante.
In un mio articolo, ho definito Adriana “contempl-attiva”, una donna calata nella storia eppure sempre desiderosa di deserto e di silenzio. La ritrovi in questa definizione?
Rispondo con le sue parole. Lei stessa in una bella preghiera degli anni giovanili invocava: «Fammi mistica apostolica e attiva contemplativa, sempre in preghiera nella mia attività, sempre in azione nella mia preghiera». Qualche anno dopo, nel 1954, avrebbe scritto che «le distinzioni tra contemplativi e attivi, apostoli e mistici» dovevano «scomparire», mostrando un «estremo interesse» per l’«apostolato della presenza e del silenzio» di cui erano espressione i seguaci di Charles De Foucauld.
E in una lettera «circolare» inviata agli amici nel 1975, quando la sua vocazione contemplativa si fece scelta eremitica, precisava che il suo trasferimento non era un «ritirarsi» come in un «guscio, al riparo dalle difficoltà di tutti». La dimensione contemplativa pienamente immersa nel mondo, nella storia, nella natura, fu il «canto fermo» della sua vita, fondendo in un crogiuolo incandescente il principio di incarnazione sviluppato in tanta teologia novecentesca e la contemplazione del «Tu» divino, amato nelle sue creature e celebrato con le parole appassionate del Cantico dei Cantici e della letteratura mistica nelle sue «quasi preghiere».
Come definisci il “monachesimo”, rivendicato con orgoglio, di Adriana?
Quello di Adriana fu un monachesimo che con molta originalità intrecciò libertà creativa e fedeltà profonda alla tradizione cristiana e alla Chiesa cattolica in cui sempre si riconobbe. Fu un monachesimo da «monaco» e non da monaca, come lei ripeteva con senso critico per la connotazione di minorità e pietismo che le sembrava racchiudesse il termine femminile. Il suo monachesimo intendeva rifarsi ai primi tempi della storia del cristianesimo, quando la scelta del deserto e della solitudine si configurò come un fenomeno laico, privo di forme, di strutture speciali, di collocazioni privilegiate. E ad assoluta «laicità» e autonomia Adriana rimase sempre fedele, nei suoi eremi dislocati in luoghi diversi della campagna piemontese: il castello di Albiano; la cascina Molinasso a Perosa Canavese; gli edifici di Ca’ Sassino di Crotte. Ancora nel 2001 ribadiva che «i valori della libertà, dell’inventiva, della sperimentazione, dell’innovazione» sono propri del monaco. Con questa libertà e inventiva fece dei suoi eremi oasi di armonia e di bellezza, prefigurazione di un «Eden» promesso e creduto, in cui la fedeltà ai ritmi monastici si intrecciava alla ricreazione di antichi riti che rinnovavano quotidianamente, come scriveva, «l’attesa del Signore Gesù» e la partecipazione all’«immenso canto universale» della terra e del cosmo.
E come si concilia con i suoi appassionati interventi pubblici?
Direi che il suo monachesimo ne è il fondamento. Nella lettera circolare che inaugurava la sua scelta eremitica prima ricordata, scriveva che non avrebbe rinunciato da allora in poi a interventi «diretti», perché l’eremita dovrebbe esercitare «una coscienza critica resa più acuta e vigilante dalla sua prospettiva di distacco». Il monaco, nella sua visione, non si estraniava dal mondo ma, per lo sguardo specifico in cui impegnava la sua vita, ne poteva cogliere meglio le contraddizioni e assolvere ancor più radicalmente al dovere della denuncia. La concentrazione sulla ricerca di Dio, la scommessa della vita sulla profezia biblica di «un mondo nuovo che è alle porte» si faceva nella sua esperienza alimento critico, potenziale di opposizione e di resistenza contro le storture del mondo.
Adriana ha custodito molte amicizie, soprattutto tra non credenti e donne e uomini in ricerca…
Certamente colpisce, nella vita di questa solitaria, la ricchezza e il calore delle amicizie. Gli amici erano convocati al tavolo della cena o si manifestavano, nei tempi appropriati e consentiti, con le lettere, con lo squillo del telefono, o con piccoli e grandi doni, sempre accolti con gioia. Nella sua vita si scopre la vicinanza affettuosissima e ricca di risonanze interiori di teologi e biblisti come Marie-Dominique Chenu, Piero Coda, Giannino Piana; Paolo De Benedetti; la vicinanza di vescovi e monaci come Luigi Bettazzi e Benedetto Calati; la solidarietà con splendide figure di preti come don Michele Do e don Gino Piccio.
E poi i tanti non credenti e uomini e donne in ricerca, per primi Rossana Rossanda, a cui la unì una trentennale amicizia; Pietro Ingrao, che riscopriva nel suo eremo «la gioia del contemplare»; Sergio Zavoli, che avvertiva il fascino del suo procedere altrimenti dalle logiche del mondo e dal «solo culto della razionalità». Ma accanto a queste figure note, Adriana fu accompagnata e sostenuta nelle diverse stagioni della sua vita dall’affetto di tantissimi altri amici che, credenti e non credenti, godevano dell’armonia dei suoi eremi, dall’intensità della sua parola, della ricchezza delle sue liturgie.
Cosa può dire Adriana alla Chiesa di oggi?
Gran parte dei problemi affrontati e sofferti nella vita di Adriana si ripresentano, intatti e forse ancora più drammaticamente avvertiti, nella Chiesa di oggi. Basti pensare ai nodi vivissimi di celibato ecclesiastico, condizione della donna nella Chiesa, rapporto con l’uso della ricchezza. Ma insieme a questi, e forse ancor prima di questi, è l’insieme della sua vita che risulta oggi straordinariamente eloquente. Vi risalta una capacità particolare di prendersi cura della terra e delle sue creature, praticando con stile inconfondibile il linguaggio della bellezza e l’armonia di un’esistenza “ecologica”. Vi traspare un «cristianesimo mistico» che, nel volto di ogni creatura come nella complessa trama della storia, sapeva intravedere la mano del Creatore. Una percezione di Dio che incarnava il noto detto del teologo Karl Rahner «il cristianesimo del futuro o sarà mistico o non sarà» e restituiva, ai suoi amici di ieri e ai suoi lettori di oggi, il mistero e la fiducia di un Amore e di una Presenza.