Dominique Lapierre, l’uomo della città della gioia

A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana

Domique Lapierre è uno degli autori più letti e famosi al mondo. Giornalista, viaggiatore e testimone straordinario del nostro tempo, Lapierre, per molti anni, ha legato a lungo la sua firma a quella di Larry Collins, giornalista e scrittore americano, conosciuto durante il servizio militare e ritrovato nel periodo dell’attività di inviato di “Paris Match”.

Con lui ha scritto best sellers come “Parigi brucia?”, “Gerusalemme! Gerusalemme!”, “Stanotte la libertà” ma il suo libro più tradotto e amato resta sicuramente La città della gioia (1985), scritto da solo e dedicato agli abitanti della più grande baraccopoli di Calcutta, alle loro storie, all’intreccio dei loro destini.  Il romanzo, che ha tre protagonisti – l’“uomo-cavallo” Hasari Pal, il missionario francese Paul Lambert, e il giovane medico statunitense Max Loeb – trae ispirazione dalla straordinaria esperienza dello scrittore nella bidonville indiana. La fortuna editoriale di questo bestseller ha portato Lapierre e sua moglie Dominique Conchon a conoscere da vicino Madre Teresa di Calcuttae a creare una fondazione per il sostegno di progetti di solidarietà e sviluppo a Calcutta e nelle zone del Gange.
Oggi nel nome di Madre Teresa e con i diritti d’autore delle opere di Lapierre sono sorte scuole, centri anti-lebbra e tubercolosi, debellata in cento villaggi, e vengono concessi “micro-crediti”. Tutto lungo le rive del Gange, al cui delta sono stati collocati quattro “battelli-ospedale” per oltre un milione di indiani, che abitano isole neppure citate sulle carte geografiche: miracoli della carità.
Da qualche tempo, Lapierre non gira più per il mondo. Le conseguenze di una brutta caduta, lo hanno confinato nella sua casa in Provenza. Restano i suoi libri e, soprattutto, l’impegno, tramite la fondazione, a dare dignità alle persone che fanno più fatica. Alcuni anni fa ebbi modo di stare un po’ di tempo con lui. Questo è il resoconto del lungo dialogo.

Come è stato il suo incontro con l’India?

Nei primi anni settanta, con il mio amico Larry Collins, arrivai a Nuova Delhi per scrivere la straordinaria storia dell’indipendenza dell’India dall’impero britannico. Fu l’inizio di una prodigiosa storia d’amore. Al volante di una vecchia Rolls-Royce Silver Cloud – la macchina dei maharaja – percorsi in sei mesi più di ventimila chilometri. Raccolsi testimonianze e documenti unici, vissi avventure rocambolesche, conobbi e riuscii persino a intervistare gli assassini del Mahatma Gandhi.  La scoperta della straordinaria crociata del Mahatma Gandhi, della sua dimensione spirituale, per me fu veramente una rivelazione. Gandhi aveva condotto il popolo indiano alla libertà, senza mai sparare una fucilata, né facendo esplodere una bomba terroristica. Parlava unicamente d’amore, di tolleranza, di non-violenza, in un tempo in cui non esisteva né la TV né la radio, perché i transistor non erano ancora stati inventati, e l’India aveva pochissima elettricità. In un tempo quasi senza giornali perché più del 75% della popolazione non sapeva né leggere né scrivere, in un Paese-continente, con 3.000 chilometri dal Nord al Sud, dove si parlano 750 lingue, si adorano 20 milioni di divinità e vi sono 600.000 villaggi. In questo mosaico di razze, di culture, di colori, di religioni, il piccolo Gandhi era riuscito a trasmettere il suo messaggio di libertà, in un modo tale che si diceva che laddove c’era Gandhi lì vi era la capitale dell’India. Quando “Stanotte la libertà” divenne un successo internazionale, volli testimoniare la mia riconoscenza ai miei amici indiani e  volli offrire una parte dei miei diritti d’autore a un’opera umanitaria, che il Mahatma Gandhi avrebbe approvato. Volevo trovare un’istituzione caritatevole che si occupasse di curare i bambini lebbrosi, e che avesse bisogno del denaro che desideravo offrire. Sapevo che non avrei avuto nessuna difficoltà a trovare una tale istituzione, in una città come Calcutta, una città di 12 milioni di abitanti, dove più di 300.000 persone nascono, vivono, si riproducono e muoiono sui marciapiedi.

Qual è il suo ricordo di Madre Teresa?

Lei fu la  prima persona che visitammo quando, con mia moglie, decidemmo di ritornare in India. Me la ricordo ancora: avvolta nel suo sari di cotone bianco, orlato di blu, Madre Teresa incarnava la compassione dell’umanità per i poveri del Vangelo. Quale emozione, quale gioia fu per noi scoprire la santa di Calcutta, un mattino alle cinque e mezzo, nella cappella del suo convento, in pieno centro della città! Era inginocchiata in mezzo a un centinaio di piccole suore vestite di bianco; le sue labbra fremevano di una preghiera continua. Sul muro, dietro il prete che celebrava la messa, c’era un cartello che diceva: “Ho sete”. Da allora non ci siamo più lasciati. Lei era un esempio per tutti. Un giorno mi disse: “Salvare un solo bambino è come salvare il mondo. Tu devi lottare contro le ingiustizie che denunci nei tuoi libri”. Madre Teresa mi ha insegnato che la povertà non è una fatalità. Che tutti possiamo fare qualcosa: a Milano, Parigi, New York o Calcutta. I poveri sono ovunque. Poi lei  sosteneva che noi, nel ricco occidente, abbiamo una lebbra peggiore di quella delle bidonville indiane: la solitudine. In Occidente ci sono tante persone che non hanno nessuno che le ami.

Cosa successe dopo l’incontro con Madre Teresa?

Lei ci presentò subito a un inglese, James Stevens, un inglese che per anni era stato un prospero mercante di camicie a Londra e poi aveva cominciato a raccogliere dei bambini lebbrosi nei quartieri più poveri. Bambini non colpiti solo dalla lebbra ma anche da altre malattie come la tubercolosi ossea,  la cheratite che, per insufficienza di vitamine, rende le sue vittime cieche di notte. Bambini che oltrepassavano raramente l’età dei 7-8 anni e che passavano le loro giornate a mendicare sui marciapiedi della grande stazione, per riportare ogni giorno alcune rupie che impedivano alle loro famiglie di morire di fame. James Stevens era una specie di Madre Teresa anonimo; il suo rifugio, a cui aveva dato il bellissimo nome di “Resurrezione”, era un isolotto di felicità nel cuore della peggior miseria. I bambini vi erano curati, guariti, nutriti, educati, imparavano persino un mestiere, e quando uscivano dal rifugio, a 16 anni, spesso Stevens trovava loro anche un lavoro. In India, per un lavoro trovato, ci sono 20 persone salvate. Quando mia moglie ed io arrivammo a Calcutta, non aveva più un soldo, si trovava in una situazione drammatica, che l’avrebbe obbligato a chiudere il suo progetto. Fummo tanto impressionati dalla scoperta di questo sconosciuto benefattore dell’umanità, e tanto impressionati dalla sua opera, che non esitammo a dargli la somma che avevamo portato.  Grazie a questo dono, Stevens pagò i suoi debiti più urgenti per salvare il suo rifugio. Quando lasciammo il nostro nuovo amico, gli facemmo una promessa realmente stravagante: “Caro James, la aiuteremo a fare in modo che lei non possa mai chiudere il suo rifugio d’amore e di speranza”. Questa promessa doveva essere, per me e per mia moglie, l’inizio di una straordinaria avventura.  Fu lui a portarci alla “città della gioia”.

E “La Città della gioia” ha dato il titolo al suo libro più noto. In realtà, è una bidonville di Calcutta. Com’è possibile che una bidonville si chiami così?

Il posto era davvero paradossale. Paradossale perché più del 75mila persone si ammassavano in uno spazio appena grande quanto due campi da calcio; un luogo dove le condizioni di esistenza erano tanto inumane che la speranza di vita era meno di 40 anni. Eppure, in questo inferno, glielo assicuro, trovai più gioia, più sorrisi, più feste che in molte metropoli del nostro ricco Occidente. Incontrai gente che non aveva niente e tuttavia sembrava possedere tutto, perché aveva conservato la capacità di sorridere; gente in piedi che sormontava l’avversità della loro condizione con un coraggio straordinario; gente che sapeva amare; gente che sapeva spartire con i più poveri di loro; gente che sapeva ringraziare Dio per il minimo beneficio. Insomma, gente più grande della maledizione che li accasciava. Nella Città della gioia vivevano 750mila persone in appena un km quadrato! Allora dissi a mia moglie: devo scrivere l’epopea per la sopravvivenza di questa gente.

Ed è nato il libro…

Esatto. Per scriverlo ho vissuto con lei due anni nella bidonville e ho realizzato la più straordinaria inchiesta della mia vita. Un’inchiesta che mi ha permesso di scoprire il senso più profondo del proverbio indiano che dice: “Tutto ciò che non viene dato, va perduto”. Durante questo tempo, nessuno ci ha mai domandato qualcosa, ci hanno solamente dato, siamo ritornati in Francia con 50 chili eccedenti di bagagli: erano i regali offerti dagli abitanti della Città della Gioia. Per due anni ho scoperto che ogni giorno era un giorno di gioia, ricco di feste e celebrazioni. Già al mattino si sentiva risuonare la musica: che dio si festeggia oggi, chiedevo? Nessun dio, oggi ricordiamo l’arrivo della primavera…: bene, in un luogo dove non c’erano un albero,  un fiore, una farfalla, c’era chi aveva il coraggio di celebrare un avvenimento che non aveva mai visto! Questi sono gli eroi dell’umanità. Tagore diceva che “l’avversità è grande, ma l’uomo è più grande dell’avversità”: i poveri di Calcutta mi hanno dato questo insegnamento. Ricordo che all’epoca della pubblicazione l’editore era dubbioso: nessuno, diceva, leggerà un libro sui lebbrosi di una bidonville. Non mi importa, fu la mia risposta, voglio dare loro una voce. Invece grazie al fantastico successo del libro (10 milioni di copie vendute e 250mila lettere di ringraziamento e sostegno) e al film che ne è seguito, ho potuto moltiplicare i miei impegni umanitari.

Vedo che gira sempre con una campanella nella borsa…

È un regalo che ho ricevuto da un uomo-risciò, un uomo-cavallo che trasporta passeggeri per la vie di Calcutta. Calcutta è l’ultima città del pianeta in cui ancora esistono persone così. Questa piccola campanella che l’uomo-cavallo batte contro la stanga del suo baroccio gli permette di annunciare la sua modesta presenza, nel traffico demente, e spesso assassino, di questa pazza città. Uno di loro, di nome Hasari Pal, un eroe del mio libro, prima di morire di tubercolosi all’età di 35 anni, mi ha dato la sua voce. Questa campanella. Per me è un rumore,una voce simbolica dei veri eroi dell’umanità. Quando viaggio nel ricco Occidente, tengo sempre questa campanella nella mia tasca perché mi ricorda di questi uomini che oggi sono i veri eroi del nostro mondo. Questa campanella mi porta la voce delle vere luci dell’umanità, la voce dei miei fratelli. Non posso dimenticarli. Ciascuno di noi è responsabile. E non dimentichi…

Che cosa?

Ottocentocinquanta milioni di persone sopravvivono con meno di 800 calorie al giorno, poco più di quanto i nazisti concedevano ai prigionieri dei campi della morte. Due miliardi di uomini non hanno accesso all’acqua potabile. Più di trecento milioni di bambini non avranno mai l’opportunità di entrare in una scuola. Con i soldi che si spendono ogni anno negli Usa per i cosmetici si potrebbe dare un’educazione a tutti i bambini del Terzo mondo.

Quali altri testimoni di umanità ha incontrato nella sua lunga storia di cronista?

Un giorno un amico mi disse: “Vorrei presentarti la Madre Teresa di Sudafrica”. Ho preso l’aereo per Città del Capo, dove ho incontrato Helen Lieberman, una donna bianca che appena trentenne osò sfidare le leggi della segregazione razziale andando a lavorare nei ghetti neri dove fondò un’associazione umanitaria (www.ikamva.org) che oggi è la più grande del Sudafrica, cercando minuziosamente nelle origini dell’apartheid, indagando i legami tra i segregazionisti e i nazisti.  Helen era la sposa bianca di un avvocato molto conosciuto di Città del Capo: aveva rischiato la sua vita molto per creare, in una bidonville, un’isola d’amore per bambini neri, crocefissi dalla tirannia bianca dell’apartheid. Ho avuto un colpo di fulmine immediato per questa eroina sconosciuta del nostro mondo di violenza e odio: ho cominciato a riempire decine di taccuini. L’ho raccontata con un libro storico intitolato “Un arcobaleno nella notte”, ispirato a Nelson Mandela, perché quando questo eroe della lotta del popolo esce dalla sua prigione, dopo 27 anni di calvario, invece di chiamare i neri alla vendetta contro i bianchi, chiama i bianchi e i meticci a creare, tutti insieme, una nazione-arcobaleno. I messaggi di Gandhi, di Madre Teresa, di Helen Lieberman, di Nelson Mandela ci comandano di difendere il più bel dono che abbiamo ricevuto da Dio, la vita. Mi permetta quindi di condividere con lei questo messaggio di Madre Teresa di Calcutta, che ho trovato un giorno in un rifugio per bambini poveri in Sudafrica. Alcuni anni prima, in una notte di monsone,vicino al Gange, Madre Teresa aveva scritto questo bellissimo messaggio: “La vita è un’opportunità, coglila. La vita è bellezza, ammirala. La vita è beatitudine, assaporala. La vita è un sogno,  fanne una realtà. La vita è una sfida, affrontala. La vita è un dovere, compilo. La vita è un gioco, giocalo. La vita è preziosa, prendine cura. La vita è una ricchezza, conservala. La vita è amore, godine. La vita è un mistero, scoprilo. La vita è promessa, adempila. La vita è un inno, cantalo. La vita è una lotta, accettala. La vita è una tragedia, afferrala corpo a corpo. La vita è un’avventura, rischiala. La vita è felicità, meritala.  La vita è la vita, difendila”.