Don Giovanni Minzoni, a 98 anni dal suo assassinio un ricordo che è un appello per tutti i credenti

Lunedì 23 agosto alle ore 19.00 a Ravenna presso Piazza Garibaldi le ACLI Emilia Romagna aps ricorderanno Don Giovanni Minzoni, prete ravennate, parroco di Argenta che, 98 anni fa, fu ucciso dalla violenza fascista.

La serata, organizzata dalle ACLI Emilia Romagna, Centro Studi Donati,  Associazione Zaccagnini, sarà coordinata da Livia Molducci e saranno letti  alcuni brani del diario di don Minzoni e scritti di Benigno Zaccagnini, Giovanni Paolo II, Sandro Pertini. Dopo il saluto del Sindaco di Ravenna,  Michele de Pascale, sono previsti gli interventi del Segretario del Pd, Enrico Letta e del Presidente nazionale delle ACLI, Emiliano Manfredonia.
I curatori dei diari di don Minzoni, Rocco Cerrato e Gian Luigi Melandri consegneranno ad Enrico Letta la pubblicazione “Memorie. 1909-1919”.
Nel rispetto delle misure anti-covid-19 la cerimonia si svolgerà osservando le distanze interpersonali  ed evitando ogni forma di assembramento.

 

Qui di seguito uno scritto su Don Giovanni Minzoni firmato dal Presidente nazionale Emiliano Manfredonia e da Lorenzo Gaiani, aclista di lungo corso e membro del CdA della Fondazione Achille Grandi

Una delle tentazioni più frequenti nel commemorare figure di molti anni fa è quella di ridurre queste persone all’atto finale della loro esistenza, specie se stroncata dalla violenza: è una tentazione logica, perché forse di certe vite non sapremmo molto se non fossero state brutalmente troncate, e la commozione e l’indignazione soffocano qualsiasi altro argomento.

 

E tuttavia, se un potere oppressivo o una forza terroristica ritiene tanto pericolosa la continuazione dell’esistenza di certe persone, occorre chiedersi che cosa appunto le rendesse tanto pericolose, che cosa abbiano significato, nel contesto degli anni in cui vivevano, da averle rese insopportabili ai loro nemici. Prendiamo due figure paradigmatiche come Giacomo Matteotti e Aldo Moro: tutti e due ad un certo punto sembrano essere uomini senza biografia, o meglio senza una biografia che non sia immediatamente riconducibile al loro martirio, come se invece la loro intera biografia, a partire dagli anni della formazione, dalle loro scelte di  vita, dalla loro concreta azione politica, non li abbia resi a poco a poco quel tipo di persona che, nell’ottica di chi li avversava, doveva essere tolta di mezzo ad ogni costo.

 

Vale lo stesso per don Giovanni Minzoni a novantotto anni dal suo assassinio: per non ridurlo ad un santino innocuo da rispolverare in occasione di un anniversario , occorre riflettere sull’uomo, sulla sua storia, sulle scelte di vita fondamentali, sul suo pensiero e sui suoi orientamenti politici che, nel caso di don Minzoni, erano strettamente connessi alla sua vocazione di fondo, che era quella sacerdotale.

 

Vediamo dunque che Giovanni Minzoni, nato nel 1885 e ordinato prete nel 1909, è pienamente partecipe dei fermenti religiosi, culturali e sociali del suo tempo , che avevano trovato impulso nell’ enciclica di Leone XIII Rerum novarum, la quale a sua volta faceva sintesi di un lavorio che veniva da lontano, almeno dai tempi del vescovo Ketteler, e, per quanto riguarda l’Italia, dalla frattura determinata dalla Questione romana che impediva ai cattolici di inserirsi pienamente nel novo Stato unitario ed insieme li faceva consapevoli dell’emergere di nuovi problemi della vita sociale e politica che la classe dirigente liberale preferiva non vedere e che si intuiva non poter essere consegnati alla propaganda socialista, percepita dai cattolici come veicolo di ateismo e di destrutturazione di un ordine sociale che andava semmai ricomposto. Da qui, come avrebbe molti anni dopo ricordato Alcide De Gasperi in un libro scritto durante l’”esilio” nella Biblioteca Vaticana e pubblicato sotto pseudonimo in epoca fascista, quell’insieme di attività associative, sindacali, cooperative, mutualistiche che erano alla ricerca di un inserimento all’interno di una cornice dottrinale e, per così dire, ideologica, non potendo farsi partito politico ma nello stesso tempo partecipando alla vita politica locale (Comuni, Province…) , oscillando fra improbabili sogni di restaurazione  del potere temporale e percezione dei mutamenti in atto e della necessità di porsi su di un piano culturale e politico diverso, non senza conseguenze anche per quanto riguardava la vita stessa della Chiesa. Come intuì giustamente trent’anni fa Giovanni Bianchi, la radice del pensiero democratico cristiano, del popolarismo, sta proprio in questo costituirsi dal basso, da questa pratica sociale diffusa, da questa vicinanza alla dimensione sociale, quasi come se per una volta fosse l’ortoprassi a fondare l’ortodossia.

 

Minzoni, che aveva sei anni quando la RN uscì, appartiene ad una fase successiva rispetto a quella dei pionieri del movimento sociale cattolico, ed anzi quando viene ordinato prete vive già nella fase del riflusso determinata dall’elezione al pontificato di Pio X, ostile all’idea democratico cristiana e più ancora alla fondazione di un partito politico che , inevitabilmente, sarebbe stato in qualche modo indipendente dalla Santa sede, preoccupato per le implicazioni dottrinali dei fermenti filosofici, scientifici e politici di quell’inizio del XX secolo al punto da scatenare la cosiddetta “lotta antimodernista” che allontanò dalla Chiesa alcuni dei suoi intelletti migliori costringendo altri al silenzio e all’attesa di tempi migliori.

 

I legami di don Minzoni con i seguaci di Romolo Murri sono ben documentati, e peraltro dal suo Diario traspaiono l’inquietudine e la delusione  per la sospensione a divinis prima e la scomunica poi del suo maestro. Un aspetto che però va rimarcato della formazione e delle attitudini di don Minzoni è quello della sua appartenenza alla terra di Romagna, e al tipo di cattolicesimo sociale che si sviluppava in essa a fronte di un preponderante anticlericalismo di matrice repubblicana prima e socialista poi (non era lontana da Ravenna la Forlì dominata dal repubblicano Pietro Nenni e dal socialista massimalista Benito Mussolini…), che richiedevano un di più di impegno per i cattolici , gravati oltretutto dalla memoria ancora recente del potere temporale della Chiesa in quei territori. Prova di questo è la presenza massiccia di emiliani e romagnoli all’interno del gruppo murriano e poi del Partito popolare: valgano ad esempio i nomi di Giuseppe Donati, il fondatore del “Popolo”, che fu uno dei più attivi nel denunciare le complicità delle massime cariche del fascismo nell’assassinio di don Minzoni, di Eligio Cacciaguerra, singolare figura di intellettuale laico applicato non solo alla politica ma anche alla riflessione teologica ed ecclesiologica, di Giuseppe Fuschini, futuro membro della Costituente, di Francesco Luigi Ferrari, uno dei pochi antifascisti cattolici ad essere andato in esilio…

 

È interessante notare che, mentre l’ufficialità cattolica si accordava con la destra liberale per uno scambio voti contro garanzie per gli “interessi cattolici” in base al cosiddetto Patto Gentiloni, la scarsa pattuglia dei democratici cristiani si impegnava per una presenza politica autonoma dei credenti, cosa che a Cacciaguerra valse il rifiuto dei sacramenti da parte di qualche prete, mentre un’analoga ribellione al Patto valeva al nostro padre fondatore Achille Grandi il licenziamento dalla direzione delle opere cattoliche della Diocesi di Como.

 

In questa fase concitata don Minzoni, giunto ad Argenta come cappellano, scelse di iscriversi e di addottorarsi presso la Scuola sociale fondata a Bergamo sotto gli auspici del Vescovo Radini Tedeschi (e si potrebbe magari immaginare un qualche contatto fra don Giovanni e il segretario del Vescovo, don Angelo Roncalli…), scegliendo come argomento della sua tesi finale la questione, all’epoca di indubbia modernità, del contrasto fra il Cristo della fede ed il Gesù storico. La stessa scelta di partire per il fronte come cappellano militare, una volta richiamato alle armi (avrebbe potuto rimanere ad Ancona come cappellano dell’ospedale militare) fu in qualche modo l’espressione di una riflessione comune ad altri suoi compagni democratico cristiani, come Cacciaguerra, che al di là di ogni retorica nazionalistica interpretavano la guerra come l’occasione per i cattolici di inserirsi nella vita del Paese in una fase di crisi, in modo da poter prendere autorevolmente la parola nella fase postbellica. Per il ruolo svolto in prima linea accanto agli Arditi durante la battaglia del Piave del giugno 1918 don Minzoni ebbe la medaglia d’argento al valor militare.

 

Rientrato ad Argenta si dedicò anima e corpo all’attività pastorale e sociale, sia nel campo dell’educazione della gioventù sia in quello della promozione sociale dei lavoratori, facendo del movimento cattolico una minoranza attiva di fronte alla preponderanza socialista e alla progressiva ascesa del movimento fascista, che fin dal 1921 aveva conquistato il potere a livello locale grazie alla pratica diffusa della violenza predicata dal ras ferrarese Italo Balbo e dal suo fiduciario locale Augusto Maran. Don Minzoni non aderì esplicitamente al PPI quando esso venne fondato nel 1919, perché riteneva che per l’efficacia della sua azione sociale fosse più consigliato non apparire come uomo di partito: contemporaneamente, e dal suo Diario ciò emerge con chiarezza, egli maturò la convinzione che la difesa dei valori umani e cristiani potesse avvenire solo sulla base del sacrificio personale, arrivando a concepire un’avversione per il fascismo come espressione di violenza brutale e di dominio sulle coscienze che era inusuale nel mondo cattolico di allora.

 

I fascisti cercarono di portarlo dalla loro parte, offrendogli, in nome del suo passato militare, la posizione di cappellano della Milizia, ma don Giovanni rifiutò, ed anzi esplicitò la sua adesione al PPI dopo che al Congresso di Torino della primavera del 1923, don Sturzo ebbe esplicitata la rottura dei rapporti col fascismo cui fece seguito l’estromissione dei rappresentanti popolari dal primo Governo Mussolini, il che ovviamente irritò ulteriormente i fascisti locali. La bastonatura fatale venne consigliata da Balbo, ordinata da Maran ed eseguita da due sgherri locali: l’intenzione, a quanto sembra, non era quella di uccidere ma ovviamente ciò non ha importanza né sotto il profilo storico né sotto quello penale.

 

L’apologeta cristiano Tertulliano disse che “il sangue dei martiri è il seme che genera nuovi cristiani”. Che cosa ha generato il sangue di don Minzoni? Essendo caduto in un terreno già  fecondo, quello appunto di una combattiva Romagna cattolica, il seme, la memoria del martirio di don Giovanni è stata coltivata silenziosamente negli anni del regime ed è emersa con chiarezza nel periodo resistenziale e postbellico,  credo che la figura che meglio rappresenta, qui a Ravenna, quell’eredità così preziosa sia quella di Benigno Zaccagnini, il partigiano Tommaso Moro, il giovane parlamentare che affiancò l’anziano ex murriano Fuschini all’Assemblea costituente, l’uomo che , insieme ad Aldo Moro, riscattò l’onore della Democrazia Cristiana in una complessa fase storica. Ma insieme  a lui non possiamo dimenticare tutti gli amici che hanno dato vita, in un contesto reso complesso dall’emergere, accanto a quella tradizionale dei repubblicani e dei socialisti, dell’egemonia politica e sociale dei comunisti, alle molteplici attività del cattolicesimo sociale postbellico, dalle ACLI alla CISL alla Confcooperative, spesso in condizioni difficili ma animati da una fede reale, una fede che si faceva azione concreta .

 

Ma la memoria di don Giovanni è anche in qualche modo uno stimolo, un appello per noi tutti: la secolarizzazione ha evidentemente inciso anche sulle forme di impegno sociale dei credenti, e dopo cinquant’anni di egemonia politica di un partito di ispirazione cristiana ci troviamo oggi in una fase di diaspora che può preludere o all’insignificanza o a una capacità di rinascita attraverso canali nuovi ed inediti. Nell’ enciclica Fratelli tutti papa Francesco ci ricorda che : “La buona politica cerca vie di costruzione di comunità nei diversi livelli della vita sociale, in ordine a riequilibrare e riorientare la globalizzazione per evitare i suoi effetti disgreganti”(182). Sono parole che, sia pur espresse nel linguaggio odierno, don Minzoni avrebbe potuto sottoscrivere perché corrispondono alla sua prassi concreta, al modo in cui lui interpretava la sua vocazione sacerdotale come ponte fra la dimensione teologica e sacramentale e la vita concreta ed ordinaria delle persone.

 

Credo che oggi, come cedenti impegnati nell’associazionismo di matrice sociale sindacale, cooperativistico non meno che nella politica istituzionale, abbiamo il dovere di cercare di essere noi stessi testimoni credibili di una storia, di un’idea , di un progetto combattendo la suggestione del populismo e del sovranismo -che sono l’incarnazione attuale di quella radice oppressiva che cent’anni fa ebbe la forma storica del fascismo- in nome della centralità della persona.