Don Roberto Pennati, che ha raggiunto finalmente la meta. Oltre la vetta

A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana

Don Roberto ci ha lasciato. È successo stamattina. Adesso è libero”.

Così la mattina del 17 maggio scorso un messaggio whatsapp di Itala mi informava della morte di don Roberto Pennati. Poco prima, due amici avevano tentato di mettersi in contatto al telefono per darmi la notizia ma non avevo risposto.

Ero sul monte Nebo, in Giordania, a guidare una cinquantina di persone. Le avevo portate all’interno dello splendido Memoriale di Mosè. Disposti attorno all’altare, stavamo ascoltando l’ultimo capitolo del libro del Deutoronomio, là dove si racconta la morte dell’ “amico di Dio”, colui che parlava con il Signore “faccia a faccia”. Stavo spiegando al gruppo alcune interpretazioni che i rabbini avevano elaborato nel corso del tempo per giustificare quella che, ai loro occhi, appariva una punizione ingiusta nei confronti del “più grande tra tutti i profeti”: guardare la Terra Promessa, ma, per ordine del Signore, non entrarci.

Mentre parlavo, insospettito dalle telefonate, ho sbirciato il messaggio arrivato e sono rimasto tramortito. Ho chiuso in fretta la riflessione e sono uscito fuori, da solo, a far risuonare, confusamente, pensieri, parole e immagini.

Una lunga amicizia

Ci conoscevamo da quarant’anni. Era da poco responsabile dell’ “Agro di Sopra”, una comunità che, sulla scia dell’esperienza del Gruppo Abele di Torino di don Luigi Ciotti, aiutava i ragazzi a vivere un percorso di crescita personale e così raggiungere una autonomia nella vita, senza dover ricorrere a dipendenze. Per questo, alla fine degli anni Settanta, l’avevo invitato, insieme a suor Pilar, alla sala del cinema della mia parrocchia, a parlare di giovani e fragilità. Un paio d’anni dopo ci eravamo trovati colleghi di Religione al corso serale del Vittorio Emanuele. Dopo di allora, abbiamo condiviso tante storie. Molti viaggi (da Gerusalemme a Lourdes, da Taizé a Lourmarin, la piccola città provenzale dove è sepolto Albert Camus, che don Roberto tanto aveva letto e studiato), infinite discussioni, un incontro mensile – per ventisei anni! – con le coppie della nostra Equipe. Era presente al mio matrimonio con Renata ed è stato padrino (quando già era malato) di Benedetta, la nostra terza figlia e per molti anni abbiamo festeggiato insieme alla mia famiglia Natale e Pasqua.

L’amore alla montagna. E la malattia

Don Roberto è stato un uomo di forti e durature amicizie e di una grande passione, quella della montagna. Passione che lo portato, sin da piccolo, su gran parte delle nostre vette – non c’è cima sulla quale non sia salito più e più volte -, a leggere – da grande – tutto quanto era possibile sull’argomento (un giorno mi ha confessato di aver catalogato nella sua libreria 630 libri e guide di montagna!) e a scalare le montagne-mito: il Cervino, il Bianco, il Bernina, i ghiacciai del Rosa.

Fino alla scoperta, a cinquant’anni, di una malattia particolare: “Si chiama Sla, colpisce il sistema nervoso; lentamente sto perdendo forza alle braccia e alle gambe. Non esistono medicine per curarla. Da tempo non vado più in montagna. Il distacco è stato lento e doloroso. Ora sono più sereno, gli amici mi raccontano le loro salite ed è un po’ come rincamminare sui sentieri, sulla neve e sulle creste.” Scherzosamente amava dire che, da allora in poi, era diventato “consulente in panorami”. Soprattutto per chi, come me, non era esperto di montagne e di sentieri: si arrivava in un posto e lo si chiamava per farsi dire le vette che si avevano di fronte.

I grandi amici

Per molto tempo, la domenica mattina, attorno ad una grande tavola, ha celebrato la Messa, seduto. Non ha smesso, fino alla fine, di incontrare e di ascoltare. “Mi sento come un grande albero sotto il quale si radunano, di volta in volta, persone amiche in cerca di ombra, di parole, di tranquillità”. E fino alla fine don Roberto ha custodito con riconoscenza e gratitudine l’amicizia, la forza dei legami. Lo scrive bene nel suo primo libro sulla montagna. “Queste pagine sono piene di amici. Per loro sono state pensate e scritte. Sono esattamente la trascrizione di possibili chiacchierate fatte con loro davanti al camino.”

Amici chiamati per nome, con davanti l’articolo determinativo, per non finire nel mucchio. Perché – direbbe il Talmud – “Dio sa contare solo fino ad uno”. Come in famiglia, come in comunità del resto: il don Bracchi, colui che l’ha iniziato alla montagna (“È un grande. Un po’ monotematico nelle scalate, ma un grande. Veniva e mi diceva: dai, quest’estate facciamo l’Ortles, tu studia, informati, briga e disfa e poi andiamo…), il Beppe Bailo (obiettore di coscienza all’Agro, con cui ha condiviso la prima scalata al Bianco), il Valter (l’amico fidato che “quando si punta può far impallidire la cocciutaggine di un mulo”), il Dome, “l’angelo custode”, e poi il Bruno, il Giovanni, il Curzio, il Giampi, il Beppe, “alpinista vero”, la Itala, l’amica fedele di tutta una vita. Legami forti perché costruiti sulla libertà (anche di prendere strade diverse), fraternità cementate da vita comune e da condivisioni di fatiche e di speranze.

“Sotto i miei rami sostate un poco”

Glielo canteranno il giorno del suo compleanno, un mese prima di morire, i suoi amici dell’END: “Il finale di questa canzone scritta da quelli che ti voglion bene ha le parole che c’hai regalato scritte nel cuore di chi ti ha ascoltato:

Son come un albero fermo in un prato 
la vostra visita mi è gradita
sotto i miei rami sostate un poco
poi vi tuffate nel caos della vita.
Il vostro cuore posso ascoltare
porgo sorrisi, offro parole,
e nello scambio di questa amicizia
si svela il volto del Signore.

Dopo la scoperta della malattia, ha lottato tenacemente con Dio. “La mia malattia ha scosso la mia fede. Soprattutto nei primi tempi un rancore sordo contro Dio e la vita, che aveva ‘voluto’ questa prova per me. Voluto no, però permesso sì? Che differenza fa?” Lui, già buon lettore, si è messo a leggere tantissimo, di teologia e di filosofia, sul tema del senso e della sofferenza, ha invitato all’Agro don Pierangelo Sequeri per una mattina di intensa discussione, ha incontrato Ermanno Olmi, da poco uscito dalla malattia che lo aveva bloccato (il dialogo con il grande regista lo troverete pubblicato la prossima settimana).

In quegli anni, quando oramai la malattia stava progredendo, gli chiesi dove volesse andare un’ultima volta. Mi rispose “Auschwitz”. “E perché?” gli domandai stupito. “Voglio vedere come si può morire con dignità”. Renata ed io lo accompagnammo in macchina: abbiamo ancora negli occhi la sua immagine solitaria che cammina lentamente lungo i binari di Birkenau.

“Poi Dio pianse…”

Negli ultimi tempi era molto stanco, parlava poco ma era sempre attento e curioso. Ci diceva che a volte sognava di un angelo che, bussando alla porta dell’Agro, chiedeva di quel prete brontolone che voleva prendere e portare con sé. Per questo, quella mattina al Nebo, proprio il commento narrativo dei rabbini a proposito del capitolo 34 del libro del Deuteronomio mi è parso il più adatto per ricordare don Roberto.

Si udì una voce dal cielo che disse a Mosè: Mosè è la fine, il tempo della tua morte è venuto! Mosè disse a Dio: Ti supplico, non mi abbandonare nelle mani dell’angelo della morte!… Ma Dio scese dall’alto dei cieli per prendere l’anima di Mosè e gli disse: Mosè, chiudi gli occhi! E Mosè li chiuse. Poi Dio disse: Posa le mani sul petto! E così fece. Poi disse: Adesso accosta i piedi! E Mosè li accostò! Allora Dio chiamò l’anima di Mosè dicendole: Figlia mia, ho fissato un tempo di centovent’anni durante il quale tu abitasti nel corpo di Mosè. Ora è giunta la tua fine. Parti, voglio lasciarlo. Allora Dio baciò Mosè e prese la sua anima con un bacio della sua bocca. Era la soave, tenera carezza del Signore a quelle labbra che, per tanti anni, avevano annunciato la sua parola. E poi Dio pianse per la morte di Mosè.

Come ha scritto Virginio Bonito, il medico neurologo che con assoluta dedizione e competenza lo ha seguito per tutto il tempo: “Negli anni della malattia ha lottato per trasformare la sua dipendenza in capacità di affidarsi all’altro con fiducia e gratitudine. La sua esistenza si è compiuta per noi, nella sua casa, come una grazia, finalmente è come un bambino svezzato nelle braccia di sua madre”.