Il potere dei segni, non i segni del potere. In dialogo con don Gigi, il parroco di don Tonino Bello

A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana

«Don Tonino Bello, terziario francescano, vescovo di Molfetta-Rivo-Giovinazzo-Terlizzi» Così, semplicemente, è scritto sulla tomba presso il cimitero di Alessano, il paese a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca dove è sepolto l’indimenticato vescovo.

Una tomba-segno

Una tomba semplice, al centro di un piccolo anfiteatro chiuso da una quinta di cipressi e tamerici, oggi meta continua di un pellegrinaggio anonimo e devoto.

Basta sostare poco tempo sui gradoni di pietra per vedere arrivare giovani che hanno conosciuto don Tonino solo attraverso i suoi scritti e si raccolgono a leggere i brani dei suoi libri o gruppi di parrocchie lontane che vengono a pregare e a deporre un fiore. Accanto alla tomba è piantato un ulivo, simbolo della pace a lui così cara, ai cui rami pendono nastri e fazzolettoni scoloriti, lasciati come pegno di affetto da associazioni e confraternite in visita.

Qui il 20 aprile dello scorso anno ha sostato anche papa Francesco nella visita compiuta nel venticinquesimo anniversario della morte del vescovo della “chiesa del grembiule”. “Cari fratelli e sorelle, in ogni epoca il Signore mette sul cammino della Chiesa dei testimoni che incarnano il buon annuncio di Pasqua, profeti di speranza per l’avvenire di tutti”. Con queste parole il Papa ha concluso il suo discorso. ”Dalla vostra terra Dio ne ha fatto sorgere uno, come dono e profezia per i nostri tempi. E Dio desidera che il suo dono sia accolto, che la sua profezia sia attuata.”

Un prete che ha conosciuto don Tonino. La sua testimonianza.

Scendo ad Alessano con un gruppo di amici e dopo la sosta al cimitero mi reco in paese. Accanto alla chiesa settecentesca si trova la casa di don Tonino, ora trasformato in un museo che raccoglie alcune sue memorie e centinaia di opere d’arte sul tema mariano. Ci accoglie don Gigi Ciardo, parroco da 43 anni della comunità. “Non si può comprendere don Tonino nella sua ricchezza umana e spirituale se non a partire da qui, dalle sua radici, dal suo paese”, esordisce subito. “Io sono nativo di Alessano e Tonino era più vecchio di me di tredici anni. Me lo ricordo prima che diventasse prete. Già allora mi colpiva il fatto che per lui un ragazzino come ero io fosse importante quanto una persona adulta. Per tutta la vita ha custodito la cura della relazione personale. Amava i volti, i nomi. A quel tempo, in Seminario – sto parlando della fine degli anni 50 – eravamo chiamati per cognome. Don Tonino invece ci chiamava per nome. Perché nel nome, diceva, si esprime l’unicità di ogni persona.”

Quali ricordi ha di lui?

Tutto ciò che sono lo devo a lui. Da discepolo sono diventato suo fratello. È stato vicerettore del Seminario per 18 anni, educatore di tanti preti. A me insegnava italiano, latino, greco e matematica. Era esigente ma ci appassionava a ciò che studiavamo, che fosse il Cantico dei cantici o i Promessi Sposi. E poi ci suscitava l’amore per la natura. Gli bastava poco: un olivo secolare, un tramonto. Ricordo quando ci portava alla casa della Diocesi non lontano dal mare: ci svegliava il mattino presto perché attendessimo l’aurora. Ci incantava con le sue meditazioni ad alta voce che accompagnava con il suono della sua fisarmonica”.

Insomma, un uomo.

Sì, don Tonino aveva una grande ricchezza umana, quella che spesso manca a noi preti. Era innamorato di Dio e degli uomini, non era un impiegato del sacro. Sai che per ben due volte ha rinunciato all’episcopato? Da noi mancano i preti, mancano i religiosi ma – guarda caso – non mancano i vescovi. Eppure lui ha rinunciato due volte. Ufficialmente la scusa era che doveva accudire la mamma ma io so che l’ha fatto per paura di perdere l’immediatezza del rapporto con gli altri.”

Più leggo don Tonino e più mi convinco della sua profonda radice di fede.

Hai ragione. È stato l’uomo delle mani giunte. Lui preparava sempre ogni intervento. Sai dove scriveva? Davanti all’Eucarestia. Quasi sempre di notte. Anche a Molfetta aveva fatto mettere un vecchio banco davanti al Santissimo e lì stava ore e ore. È stato un uomo di Vangelo, anche nelle scelte più scomode.

Quali, ad esempio?

Prendi la povertà. Non gli si poteva dare nulla che subito lo distribuiva. Noi cercavamo di metterlo in guardia dicendogli di stare attento perché qualcuno poteva approfittarne. “Preferisco che ne abusino piuttosto che uno rimanga privo” ci diceva. Meglio il potere dei segni che i segni del potere. Al dito aveva l’anello della mamma, croce e pastorale erano di legno. Non aveva segretari né assistenti. Come automobile, aveva una 500, blu chiaro. Un giorno gliela rubarono. I ladri la smontarono tutta ma quando seppero che era la sua andarono a dirgli dispiaciuti che avrebbero rubato un’altra per restituirgliela. Lui disse di no, che non voleva e allora venne da me a prendere la Fiat Ritmo che gli aveva regalato la mamma e che teneva nel mio garage.

Non deve aver avuto la vita facile.

No. Prova a pensare quando prese con sé in episcopio famiglie di sfrattati, quando, aggredito dal tumore, partì con altri cinquecento alla volta di Sarajevo, rompendo l’assedio e sfidando i cecchini. È stato un credente dalle mani aperte. Costi quel che costi. Ieri un ragazzo di Alessano che si sta laureando in medicina ha scritto un post su Facebook. “Non vado più a messa ma mi sono rimasti nel cuore gli insegnamenti di don Gigi su don Tonino. Mi dispiace che ad Alessano Salvini abbia preso più di 750 voti, più di un terzo di tutti gli elettori, e che il suo sia il primo partito del nostro paese”. Anch’io penso che sia grave per la nostra comunità. Non ho nulla contro la persona. Ma non posso tollerare che si parli di porti chiusi, di respingimenti, di disprezzo dell’altro. Il cristiano è l’uomo dalle mani aperte che non trattiene mai, niente e nessuno.

È rimasta impressa la sua definizione di pace come “convivialità delle differenze”.

Si, ricordo quanto tornò da Sarajevo. Mi raccontò che una sera un uomo lo invitò a casa dove si faceva un banchetto funebre. Con semplicità, quell’uomo gli disse: “Io sono serbo, mia moglie è croata, queste mie cognate sono musulmane, eppure viviamo insieme da tempo, senza problemi: ma chi la vuole questa guerra?. Per don Tonino la convivialità delle differenze si vive partendo dal grembiule: al servizio degli altri, non gli altri al mio servizio.”

L’ultima lezione è stata il tempo della malattia.

Aveva un fisico di atleta e gli piaceva competere. Il giorno di sant’Antonio se non segnava 13 goal non si tornava in seminario e a nuoto era instancabile. Ricordo che per andare al mare riempivamo le macchine di ragazzi, cinque nella sua Cinquecento, otto nella mia Ritmo. Uno così viene colpito dal tumore allo stomaco. Ha scelto di essere operato là dove si opera la nostra gente. Non ha voluto fare il viaggio della speranza presso cliniche o ospedali all’estero. Ha vissuto la malattia lottando e, insieme, affidandosi al Signore. Quando gli dissi che era giunto ad un punto grave, gli chiesi quale desiderio avesse: “Vorrei morire a Molfetta ed essere sepolto ad Alessano. Un vescovo è un padre che deve stare con i suoi figli”. Il mese prima di morire, il 18 marzo, giorno del suo compleanno, l’atrio dell’Episcopio era gremito di giovani. Cantavano “Freedom”, uno spiritual che don Tonino amava molto. Volle a tutti i costi affacciarsi alla finestra, prese un megafono e disse loro: “Se Dio mi darà vita non vorrò essere davanti a voi o dietro di voi, ma in mezzo a voi.” Così ha sempre voluto stare.

Che regalo averlo incontrato!

Lo puoi proprio dire. Sai, oggi per merito di papa Francesco alcune parole sono state rimesse al centro della vicenda cristiana: ultimi, chiesa del grembiule, ospedale da campo. Noi quelle parole le abbiamo ascoltate cinquant’anni fa. E le abbiamo viste incarnate in un uomo, in un credente della nostra terra. Se questa non è grazia…”.