La Costituzione, settant’anni al servizio della stabilità

Settant’anni fa si promulgava la Costituzione della Repubblica. Era il 1947. Lo ricordiamo senza alcun intento celebrativo, per non cadere nelle retoriche che non aiutano a crescere. Solo due considerazioni.

La prima è che la storia della nostra Costituzione si è legata in modo assai stretto alla vicenda del presidente della Repubblica. Entrambi, in questi settant’anni, hanno nel complesso garantito una buona stabilità istituzionale e politica e perfino una legittimazione sociale largamente condivisa. A fronte di ormai usuali indici di popolarità piuttosto bassi per la triade governo-Parlamento-partiti, la diade presidenza della Repubblica-Costituzione si è (invece) sempre difesa senza particolari tensioni: rare, al limite.

In una Repubblica dal sovente clima politico instabile, ecco che la presidenza della Repubblica e la Costituzione della Repubblica hanno invece mostrato solide capacità di tenuta. La Costituzione ha consentito ai presidenti di adottare funzioni e stili in base alla fase politica, contraddicendo chi riteneva che la stessa Costituzione li relegasse a un ruolo notarile: la Costituzione, a testo invariato, ha consentito quella flessibilità del ruolo che ha dato concretezza all’azione politica.

La seconda considerazione è che, quindi, questa flessibilità tra la vita sociale e politica e le istituzioni possa essere prevista anche per le altre istituzioni. E questo non può accadere a testo invariato. Difendere la Costituzione significa allora adeguarla – senza stravolgerla nei suoi principi fondativi – alla Costituzione reale, con cui intendiamo sia le buone consuetudini che la politica (come la vita) produce sia le innovazioni (anche in politica si può parlare di innovazioni) che ci aiuterebbero a raggiungere più speditamente il bene comune.

Oggi parlare di riforme appare piuttosto velleitario. Sono spariti anche i “riformisti”: né alla Camera né al Senato esiste un gruppo che faccia riferimento a questa pur sempre nobile tradizione politica. Eppure la riforma – anche solo sotto forma di manutenzione – è sempre necessaria. Perché se le istituzioni mantengono un buon rapporto con la vita e il sentimento collettivo, allora si consolidano. Diversamente, vince il populismo nella sua peggior forma, quella che vorrebbe sempre azzerare tutto, perché è tutto sbagliato, tutto da rifare. Rifare non è riformare.

Ci auguriamo che quando nei prossimi mesi andrà in scena la campagna elettorale, oltre ai toni ovviamente divisivi sui diversi modi di dar risposta ai problemi, si possa anche tornare a parlare di riforme da fare insieme per rafforzare quelle istituzioni che non possiamo indebolire senza indebolire contestualmente ogni soggetto politico e l’idea stessa di politica.

Roberto Rossini