Le suore lasciano il Caritas Baby Hospital di Betlemme

Un’intervista esclusiva con suor Lucia Corradin  

Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana

 

Per molti anni suor Lucia Corradin è venuta ad accogliermi al cancello del Caritas Baby Hospital. Come suor Donatella e suor Grazia prima di lei, ogni volta disponibile ad incontrare i gruppi che guidavo a Betlemme, a parlare loro della straordinaria vicenda dell’unico ospedale pediatrico di tutta la Cisgiordania, ad accompagnare le persone nei reparti. D’altronde, l’accoglienza è sempre stata la caratteristica di questo ospedale, nato dall’intuizione e dalla tenacia di un prete svizzero, padre Ernst Schnydrig, in visita ai campi profughi di Betlemme nell’inverno del 1952. La notte di Natale stava recandosi alla messa nella Basilica della Natività e, nel breve tragitto che lo portava alla chiesa, passando vicino ad uno di questi campi, vide un uomo palestinese intento a seppellire il proprio figlio morto per mancanza di cure mediche di base. Da quell’incontro nacque il sogno di un ospedale aperto a tutti i bambini: il Caritas Baby Hospital. Poche stanze in affitto e una promessa: “We are here”, noi siamo qui. E qui l’ospedale – inaugurato ufficialmente nel 1978 – ha messo radici. Oggi, il Caritas Baby Hospital è diventato un’oasi di tranquillità e di pace per i piccoli e per le loro famiglie che vivono in Cisgiordania. In quest’area abitano circa 300mila bambini, privi di una reale possibilità di assistenza sanitaria. Nella regione, l’ospedale rappresenta una struttura insostituibile. La situazione di continua crisi e conflitto nella Striscia di Gaza ha portato anche bambini di quel piccolo lembo di terra ad essere curati nel Caritas Baby Hospital.

Ogni anno dal poliambulatorio passano 48.000 bambini. Negli 82 letti dei reparti vengono accolti quasi 5.000 piccoli degenti.

Suor Lucia e le sue sorelle lasceranno l’ospedale a fine anno. Durante l’ultimo Capitolo, la famiglia religiosa a cui appartengono – francescane elisabettine, presenti in Italia, in Africa, in America Latina – ha disposto, per la crisi di vocazioni che sta subendo, di lasciare Betlemme dove le suore erano presenti sin dall’inizio della fondazione del Caritas Baby Hospital. 

Un’altra comunità religiosa prenderà il loro posto. La scelta, molto sofferta, ha fatto subito il giro dei social. 
A me resta solo la gratitudine nei loro confronti. Ogni volta che mi fermavo all’ospedale introducevo l’incontro in questo modo: “Dopo la visita alla Basilica della Natività che racconta come il Dio dei cristiani si è fatto carne in un cucciolo d’uomo, non possiamo non fermarci qui. È un monito e un impegno. Ad onorare nei piccoli e nella carne che soffre, il nostro Dio. Non c’è altro modo”. 

Suor Lucia, tu sei a Betlemme da diciotto anni. Ricordi il tuo primo giorno? 

Si, certo. Ho iniziato il giorno 26 ottobre del 2002. Ricordo bene i sentimenti vissuti quando sono entrati nei reparti: il timore, che provavo per la novità dell’ambiente, della cultura, della lingua, dell’incontro con nuove persone; la paura e il senso di inadeguatezza per la responsabilità assegnatomi, come anche lo stupore per i piccoli, in particolare per i prematuri, la tenerezza e la bellezza nel vedere e prendere in braccio queste creature così fragili e vulnerabili. Direi proprio che un miscuglio di gioia e stupore, di paura e ansia mi hanno abitato quei primi giorni. Ho consapevolezza della grande commozione provata ogni volta, che toccando uno dei bimbi, mi ricordavo di essere proprio a Betlemme dove Dio si è fatto Bambino! Nonostante i tanti sguardi, le tante domande da parte dello staff ho percepito accoglienza, benevolenza, curiosità, gioia.” 

Chissà quante storie hai incontrato in questi anni.. C’è ne qualcuna, in particolare, che ricordi?  

Come penso ai primi bambini assistiti con malattie sconosciute, ad esempio l’epidermiolisi bullosa, e al lavoro d’équipe perché la mamma potesse accogliere in maniera incondizionata la situazione del proprio figlio. 

“Mi piace ripensare in particolare ai prematuri che hanno lottato strenuamente per la vita e ce l’hanno fatta e che poi sono venuti a farci visita da grandi. 

Ripenso alle relazioni, all’ascolto e ai racconti dei familiari come anche ai bambini più grandi che ripetutamente venivano ricoverati e quindi ogni volta era una festa ritrovarsi, riabbracciarsi e sperare con loro e per loro, lottando insieme per la vita. Ho goduto molto ogni volta che potevo andare a far loro visita in casa. L’abnegazione di tante mamme, la capacità di soffrire con profonda dignità e silenzio sono insegnamenti sigillati nel cuore. Le loro storie sono impresse nel mio animo e custodisco quanto imparato da ogni incontro.”  

Diciotto anni è un tempo lungo. Cosa ti ha messo più alla prova?  

L’esperienza più difficile è stato il primo anno: per i vari coprifuochi, chiusure, vedere con i propri occhi tante morti assurde, ingiuste a causa dell’occupazione; l’impatto con una cultura, mentalità molto diversa dalla mia per non parlare della lingua araba che ho incominciato a parlare e che non ho mai potuto imparare bene perchè occupata nei continui servizi. Ogni passaggio di ruolo è stato faticoso e mi ha chiesto tanta pazienza e duttilità. Anche la vita fraterna, per la varietà di sorelle che si sono avvicendate e di diversa mentalità o cultura, ha avuto alcuni momenti di stasi. La realtà più pesante in assoluto da accogliere è stata comunque l’accettazione reale di questo conflitto che sembra non avere fine, dei muri di separazione, delle divisioni visibili tra i popoli, tra i capi politici, delle continue ingiustizie e delle tante sofferenze inutili. In questo momento mi è difficile lasciare la Terra Santa, ancor di più per le difficoltà aggiunte a causa della pandemia.”  

Cosa auguri ai collaboratori e alle famiglie di Betlemme? 

Auguro a tutti loro di non smettere di credere nella pace vera e nell’unità, di non avere paura di sperare in un futuro migliore perchè sono convinta che un giorno la pace verrà, anche a Betlemme perchè Dio è fedele alle sue promesse. Tanti anni fa ho letto un libro che affermava che ‘il futuro ha un cuore di tenda’, un modo di dire accoglienza, relazione, provvisorietà, adattamento alla vita che supera la resilienza. I palestinesi di per  hanno imparato molto dalla vita ad essere resilienti ma occorre andare oltre e credere che c’è una novità bella che ci aspetta. C’è, come dire, un frammento di carne, c’è qualcosa di Dio in ogni creatura, c’è quello che gli angeli hanno detto nel cielo di Betlemme: la buona volontà, la volontà di amare perchè niente è impossibile a Dio. 

È Lui che ci dona la forza, la consolazione e la sapienza del cuore per leggere i segni dei tempi e rispondere ai più urgenti bisogni dell’umanità indifesa con prontezza, passionee fiducia perchè siamo suoi figli e non può abbandonarci. Per esperienza posso dire  che qui paradossalmente il mistero gioioso della nascita di Cristo si intreccia  con il mistero della croce. Questo e` un luogo che ha conosciuto davvero il “giogo” e il “bastone” dell’oppressione e chi ci abita è chiamato a vivere nell’umiltà e nella povertà, con la certezza che ogni dolore sarà trasfigurato e la gioia piena sta nel riconoscersi amati e benedetti sempre e comunque da un Padre che non fa altro che aspettare che apriamo la porta del nostro cuore per donarci la sua grazia.  

Cosa ha significato per te lavorare a Betlemme? 

Innanzitutto provo un senso diprofonda gratitudine nell’essere stata qui e nell’aver avuto la grazia speciale di servire i piccoli ed indifesi come appunto i bambini malati e le mamme, proprio qui dove Dio si è fatto bambino indifeso, bisognoso di cure e di affetto. È stato ed è ancora oggi un dono speciale. Al di là dei ruoli svolti nell’ospedale, come religiosa la mia prima missione è stata quella di cercare di vivere in una fraternità la compassione di Dio e a mia volta generare questa novità di vita, divenendo per quanti incontro e servo grembo-spazio di misericordia. Come suora mi riconosco amata per grazia, toccata dalla misericordia e inviata a rendere visibile in maniera personale questa misericordia di Dio ricevuta, chiamata a vedere in ogni persona la reale epifania del Dio vivente, e a incarnare lo stile di Dio, obbediente, povero e ospitale verso tutti. In questi diciotto anni ho vissuto con diverse sorelle e di diversa provenienza, con alcune per tratti brevi e con altre piu’ lunghi e la vita fraterna mi ha allenata a imparare ad accogliere ciascuna in modo incondizionato con le sue gioie e fatiche, con i suoi successi e fallimenti. Si impara a volere bene, perdonando, ricominciando ogni giorno e fidandoci del Signore che è il Sommo Bene e sa ciò di cui abbiamo bisogno. Non potrò dimenticare l’attenzione premurosa, la benevolenza, il lavoro infaticabile e lo spendersi con passione per i piccoli e per il bene delle sorelle. 

Insomma, la vita ti ha fatto un bel regalo… 

Sono davvero grata dell’esperienza cosi variopinta e arricchente sia da un punto di vista umano che di fede. L’esperienza vissuta in ospedale con i bimbi e le loro mamme mi ha permesso di fare esperienza continua e sempre unica del partorire in terra, nel dar loro il “latte nutriente”, di affetto, di dolcezze, di vicinanza, di attenzione ma anche del partorire al cielo, del lasciarli andare, dello svuotarci per consegnarli alla vera vita… facendo esperienza  dell’unione della terra del cielo, del cielo con la terra, dell’esperienza stessa di Dio Padre che si fa tutt’uno con l’umanità facendosi uno di noi e vivendo nella Sua carne ogni passione, croce, morte e facendo risorgere alla vera vita ogni morte, lutto, distacco. Ho avuto la possibilità di generare la vita e di essere madre. Ricordi indelebili. Lavorando con il personale mi ha sorpreso il loro senso dell’ospitalità, della benevolenza, dell’aiuto reciproco, del saper essere resilienti e di accogliere con fede gli eventi della vita… Quel Al- hamdu lillah (rendiamo lode a Dio) ripetuto costantemente da loro ancor oggi mi fa riflettere, mi provoca ad essere grata di tutto ciò che sono e ho perchè donato gratuitamente.  

Per grazia ho conosciuto tanti pellegrini che sono venuti a visitarci, alcuni volontari che in diverse vesti hanno regalato competenza, professionalità, amicizia al nostro personale, dei religiosi e religiose con cui ho intessuto belle e profonde relazioni di amicizia. Non posso dimenticare poi la varietà e la complessità del mondo religioso, con i suoi diversi credi e riti, la problematicità del mondo politico e l’interminabile conflitto tra palestinesi e israeliani: una realtà affascinante e nello stesso tempo impegnativa da comprendere e da vivere nella sua provvisorietà. Mi sento privilegiata per questa ricchezza di esperienze impegnative e affascinanti e tutto è davvero grazia: un’opportunità reale per crescere come donna e come consacrata a Dio. Posso confermarti che ogni esperienza è stata significativa, arricchente che ha lasciato il suo segno e avendo la grazia di imparare sempre e di vivere con creatività e passione costante. Non potrò dimenticare i primi incontri e contatti quotidiani con bambini, mamme, personale: eventi che hanno ancor oggi un significato comune: dare alla luce una nuova vita, cercare di incarnare il Signore Gesù nella mia vita, generando per quanto posso vita, vita piena e abbondante. Nonostante tutto.