Se il lavoro non dà più futuro, né alle persone né al Paese

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Il futuro sembra essere andato in apnea.

Un’analisi dei dati, realizzata dall’Area Lavoro ACLI in collaborazione con l’IREF, l’istituto di ricerca delle ACLI sulle dichiarazioni dei redditi presentate al CAF ACLI (un milione di dichiarazioni 2020) ci dice che anche il lavoro dipendente più stabile e continuativo, potremmo dire di chi sta meno peggio, soprattutto tra i trentenni (30-39) fatica ad “assicurare quell’esistenza libera e dignitosa” che la Costituzione imporrebbe ad ogni lavoro.

Ci si è focalizzati in particolare su questa fascia di età perché tendenzialmente è quella durante la quale si dovrebbe poter programmare il futuro ed essere nelle condizioni di poter liberamente compiere o meno scelte determinanti per la propria vita: mettere su famiglia, avere dei figli, scegliere una residenza relativamente stabile (e forse acquistarla), cominciare un programma di previdenza integrativa.

È vero, il 2020 è stato un anno particolare per le ragioni che tutti conosciamo, ma non stiamo parlando di tutti i 30enni bensì di un sottoinsieme in condizioni lavorative abbastanza continuative, che un tempo si sarebbero detto dei “tutelati”. Infatti, non rientrano nel campione disoccupati o inoccupati, persone in povertà (ricordiamo che il 46% dei casi dei percettori del Reddito di Cittadinanza, sono lavoratori, dei quali quasi 2/3 stabili), o indipendenti. Non sono inoltre considerati i tanti precari, come ad esempio i collaboratori sportivi (e quindi senza tutele), né la considerevole quota di giovani che non presenta alcuna dichiarazione perché incapiente: soggetti che certamente, nel complesso, abbasserebbero di parecchio i valori medi dei redditi di seguito riportati. Inoltre, bisogna consideratore che la popolazione dei dipendenti oggetto dell’analisi riguarda prevalentemente il Nord Italia (77% dei casi, rispetto all’11% del Centro e il 12% del Sud). Pertanto, si tratta di una stima ottimistica se confrontata con tutta la popolazione.

In un momento della vita in cui in un paese normale ci si aspetterebbe di fare un lavoro che garantisca una qualche autonomia, nella fascia 30-34 anni quasi l’11,9% delle persone sono assolutamente povere (con un reddito complessivo annuo inferiore o uguale a 9.000 euro, soglia di povertà stimata dall’Istat in base alle differenti aree geografiche), nonostante lavorino. Tra le donne la percentuale arriva al 15,9% vs. l’8% degli uomini.

Se consideriamo anche i redditi complessivi inferiori o uguali a 11.000 euro, ovvero quelli dei lavoratori poveri (working poor, tra cui le donne sono il doppio degli uomini: il 23,8% vs il 11,7% degli uomini), si arriva ad una percentuale di lavoratrici e lavoratori pari al 17,6% (fig. 2) e si raggiunge il 31% tra quanti hanno un reddito complessivo che non va oltre i 15.000 euro e che possiamo definire “vulnerabili”. Basta, infatti, un evento fuori dall’ordinarietà – ma tutt’altro che improbabile (come un divorzio, un familiare che si ammala, che ha bisogno di assistenza, ecc.) – o semplicemente la nascita di un figlio per esporre queste persone al rischio di una condizione di povertà.

Se si guarda fino alla soglia dei quarant’annila situazione non cambia di molto: il 10,5% sono lavoratrici o lavoratori in povertà assoluta (il 14,5% delle donne e il 6,8% degli uomini), mentre la percentuale sale al 15,8% se consideriamo anche i working poor (22% delle donne il 10,1% degli uomini) e al 28,1% i lavoratori vulnerabili. Di nuovo, è netta la differenza di genere: il 38,5% delle donne rispetto al 18,4% degli uomini.

Tali dati ci dicono che il tempo e l’esperienza non fa uscire dalla povertà: nella povertà si resta intrappolati e che i percorsi di carriera restano piatta.

Dividendo poi in 5 quintili (5/5) le fasce di reddito annuale e guardando alle medie (le mediane si discostano di poco) quasi 1 su 4 (23,5%) dei 30-34enni, ha un reddito complessivo di 8.389 euro, ovvero è assolutamente povero, e per oltre un quarto di essi (26,1%), nel quintile successivo, il reddito complessivo medio è di 16.483 (relativi a stipendi mensili netti intorno ai 1.050/1.100 euro a seconda che si divida per 13 o 14 mensilità; cfr. Tab. 2). La metà degli under 35 (23,5%+26,1%), quindi, in media oscilla tra povertà assoluta e uno stipendio sotto o quasi la soglia dell’autosufficienza, che non consente, senza aiuti esterni, di fare progetti (anche considerato che da almeno un decennio per più di 1 donna su 4 scegliere di avere un figlio significa perdere il lavoro).

Nel quintile successivo (il terzo) abbiamo un 23,3% di 30-34enni con un reddito annuale medio di 22.126 (corrispondente a uno stipendio mensile netto tra 1.300 e i 1.400 euro): un reddito maggiore che però, considerando il contesto territoriale (prevalentemente le regioni del nord) non apre a grandi investimenti in totale autonomia.

Nella fascia di età 35-39 anni il primo quintile conferma un reddito medio complessivo simile (8.578 euro), sotto la soglia di povertà assoluta. La percentuale dei 35-39enni in questa situazione scende al 19,3%: non una grande diminuzione, visto che siamo alla soglia dei quarant’anni e ci si aspetta che il lavoro sia sufficiente per vivere. Nel quintile successivo (il secondo), con un reddito complessivo medio che stenta a crescere (16.529 euro) abbiamo il 22,6% dei 35-39enni. Possiamo dedurne che nel passaggio verso i quarant’anni la popolazione di chi in media oscilla tra povertà assoluta e stipendi da relativa sufficienza è di più di 2 persone su 5 (41,9%). A questi numeri si aggiunge il terzo quintile, con reddito complessivo medio che non sale (22.194), e che riguarda il 23,1% dei 35-39enni. Di nuovo, un reddito che in autonomia consente relativamente di fare investimenti particolari, anche considerato che parliamo in prevalenza di residenti al nord.

Va anche rilevato che essere poveri nonostante si lavori non rappresenta solo un’assenza di diritti, ma indebolisce tutto il Paese, perché ne riduce la domanda interna, che è ciò che più sostiene il PIL. Inoltre, il lavoro povero indebolisce la struttura di welfare perché significa che poco o nulla va a contribuire ai fondi destinati alle pensioni, alla sanità o all’istruzione.

A questo quadro va aggiunto che considerata totalità della popolazione (tutte le età) le medie di reddito dei diversi quintili di fatto non cambiano. Il che potrebbe significare che si conferma un 40% circa tra coloro che sono sotto la soglia di povertà assoluta o che hanno uno stipendio di relativa autosufficienza e un altro 20% che naviga con qualche orizzonte, ma che se messo di fronte a imprevisti non così improbabili come una malattia o un anziano di cui prendersi cura, o peggio la perdita di un lavoro o un divorzio, potrebbe rapidamente trovarsi in forte difficoltà. Questo dato relativo a tutte le fasce di età deve far anche pensare che tende a ridursi la capacità di soccorso che i padri possono dare ai figli in termini di supporto economico, oltre a quella di sostegno nel prendersi cura dei figli piccoli (visto che ormai i figli si fanno dopo i 30 anni e si diventa nonni alla soglia degli 80 anni, quando spesso si diventa bisognosi di assistenza). Poiché è probabile che queste tendenze si confermeranno (certo accentuate dall’anno pandemico, ma, visto quanto precisato sopra, in linea con un quadro in divenire negli anni) dobbiamo sottolineare che molti trentenni che oggi trovano ancora appoggio nelle reti familiari, faranno ancora più fatica visto il ridursi di esse, o il loro stesso rappresentare un carico più che un sostegno. La scarsa o relativa autonomia che oggi il mondo del lavoro assicura a lavoratrici e lavoratori sarà sempre meno sostenibile nel tempo. E la tendenza si accentuerà se aggiungiamo il fatto che il drammatico calo demografico in corso segnerà un abbassamento del valore del patrimonio edilizio (meno popolazione meno bisogno di case), laddove l’abitazione rappresenta la metà della ricchezza delle famiglie italiane.

La vulnerabilità è, dunque, il tratto emergente per una larga fetta della generazione dei trentenni (intesi come 30-39enni). Pensare che si possa affrontare questo quadro con soli interventi, pur urgenti e fondamentali, di welfare significa caricare il welfare di una domanda di giustizia e di futuro che da solo non sarà in grado di sopportare.

È urgente che il lavoro, come abbiamo sostenuto nel documento delle Direzione nazionale ACLI per il Primo Maggio, torni ad assicurare a tutti un esistenza libera e dignitosa e non appena sopra la povertà. Serve aprire una riflessione sulla ricchezza e sul prevalere di un suo uso avido, speculativo, spesso elusivo e poco trasparente, e sul suo accentrarsi in poche mani. Serve mettere in campo un’economia che cerchi la produttività non al massimo ribasso dei costi del lavoro e dei fornitori ma, come fanno alcune realtà di eccellenza, nel lavoro di qualità, nella crescita professionale e individuale delle persone che lavorano, nella partecipazione e nella collaborazione con loro, nel fare rete tra aziende e comunità, nella collaborazione vera con i paesi e i territori più poveri. Un’alleanza a tutto tondo per un’economia che sia autenticamente civile.