Sulla Libia abbiamo perso, è ora di prenderne atto.

Il provvedimento sull’impegno militare in Libia, votato nella serata del 7 luglio scorso, prevede il rinnovo della presenza dei militari italiani all’estero e riguarda la proroga della partecipazione del contingente della Guardia di Finanza e dell’Arma dei Carabinieri alla missione bilaterale di assistenza alla Guardia Costiera della Marina libica.

La misura ha come obiettivi quello di intensificare l’azione diplomatica con le autorità libiche, al fine di permettere l’accesso rapido e completo delle organizzazioni internazionali ai centri di accoglienza per migranti, nonché quello di rafforzare, nei programmi di formazione della Marina libica, le componenti sul rispetto del diritto internazionale del mare e dei diritti umani. “L’obiettivo è fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta di esseri umani tramite l’addestramento dei militari libici”, si legge nel testo del provvedimento.

Un quadro molto complesso costruito nel 2017 con la firma del Memorandum fra Italia e Libia legato al contrasto dell’immigrazione illegale con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza delle frontiere.

Il documento era stato raggiunto nell’ambito della crisi europea dei migranti, quando a sbarcare sulle coste italiane erano decine di migliaia di uomini che i megafoni della paura descrissero come una vera e propria invasione.

Nel quadro del conflitto libico l’Italia sostiene, insieme a Qatar e Turchia, il GNA di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite e guidato dal primo ministro Fayez al-Sarraj. Dalla parte del comandante Khalifa Haftar, invece, uomo forte del governo di Tobruk, sono schierate Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Russia, Giordania e Francia.

Dopo quattro anni quali risultati ha portato questa operazione? Possiamo dire oggi che quegli investimenti abbiano portato risultati in termini di institution building?

La nostra presenza in Libia ha livelli diversi di comprensione: politica e geopolitca.

Dal punto di vista politico l’obiettivo per il nostro Paese era il rallentamento dei flussi migratori. Nei fatti, l’attuazione di questo piano ha portato la presunta guardia costiera libica (che altro non sono che milizie sotto il controllo del governo Sarraj ) a 600.000 tra sfollati e persone rinchiuse in centri di detenzione, nell’assoluto disprezzo di ogni forma di garanzia dei diritti umani. Qual è stato il costo in termini di viita e sofferenza di questa scelta?

Dal punto di vista geopolitico, oggi la Libia è ancora teatro di una guerra civile dove Haftar e Sarraj si confrontano con alle spalle potenze regionali tenute insieme da interessi nazionali diversi. In questo quadro l’Europa non solo non ha una voce unica ma ha fallito nell’operazione più importante da mettere in campo per la realizzazione dell’obiettivo di arrestare i flussi migratori, ovvero quella di rimettere in piedi le istituzioni di un paese lacerato, in cui è sottile la linea tra chi dovrebbe controllare le frontiere e chi organizza la tratta delle vite umane.

Oggi, purtroppo, a quattro anni di distanza da quel memorandum dobbiamo prendere atto che il nostro Paese ha un ruolo di secondo piano sulle vicende libiche: senza l’azzeramento di ogni accordo economico e politico con gli interlocutori di quel paese e la proposta di ricostruire istituzioni credibili dal principio, con l’intesa dell’intera Comunità Internazionale, stiamo finanziando solo disperazione.

Matteo Bracciali
Vicepresidente FAI