Il segno delle chiese vuote. Che non si riempiranno tanto presto

In dialogo con un prete che non si illude

Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana

Passa da casa un amico prete e mentre beviamo un caffè insieme commenta il mio ultimo articolo sulla fuga, inarrestabile, della gente dalla chiesa.  

“Non avrei immaginato di vedere un crollo di questo genere nella mia vita” 

“In pochi anni sono passato dal vedere oratori pieni e chiese affollate a oratori semideserti e chiese popolate per lo più da persone di una certa età. In teologia parlavamo della fine ingloriosa della chiesa di Francia. Non pensavamo di certo che sarebbe toccato presto anche a noi”. “Sei spaventato?” Gli chiedo. “No, però mi rendo conto che è avvenuto un cambio di paradigma che ci ha ribaltati. Comprendo chi si illude che basti poco per poter tornare a prima: due parole d’ordine, la processione durante la festa patronale, i sacramenti dati a prescindere, l’impegno, prima del Covid, per i Crest.  

Non cambia nulla ma intanto fai movimento e ti convinci che sei ancora indispensabile.  

Io invece a volte  brancolo nel buio. So che così come stiamo facendo ora non andremo avanti a lungo ma faccio fatica, non ad immaginare, ma a realizzare forme pastorali nuove. Anche perché, te lo dico francamente, il carico di lavoro attorno a cose non essenziali che, come parroco, sono tenuto ad osservare è notevole.”  

“Certo che avete fatto poco per aiutare i laici a centrarsi sulle – poche – cose che contano..”  

“Hai ragione. Non dimenticare però che, molte volte sono i laici stessi a stare dentro il clichè clericale e a chiederci di occupare spazi – da preti – piuttosto che avviare processi”.  

“Non mi convinci”, gli dico. “In fondo, il modello tridentino, risposta cattolica alla Riforma protestante – modello mai del tutto abbandonato – era del tutto costruito attorno al prete. La comunità dei credenti, tanto evocata dopo il Concilio Vaticano II, è ancora tutta da realizzare…” 

Nella città di tutti 

Quello che mi pare certo è che noi siamo inesorabilmente gli ultimi testimoni di un certo modo di essere cristiani. E inevitabilmente la Chiesa – oggi in mezzo al guado –  è destinata a mutare il suo volto i cui contorni prossimi sono ancora imprecisi.  

La tentazione è di tornare indietro, verso lidi sicuri di un tempo. Peccato che non ci siano più, né i lidi né il tempo. Il cambiamento da avviare rappresenta un vero e proprio lutto da rielaborare. Senza rimpianti, risentimenti né, tantomeno, fuga, in chiave identitaria, verso improponibili deserti e luoghi lontani. Occorre abitare con coraggio e fiducia il tempo presente, stare da uomini dove gli uomini vivono, discernere come essere per tutti un segno,  

per ridire, nella città plurale, l’unica cosa che i cristiani hanno di prezioso: l’umanità del Vangelo.  

Magari vivendo sul serio, oltre la retorica, la fraternità, la comunione fraterna, vero segno autentico di testimonianza cristiana.  

Le priorità secondo il Vangelo 

Ho trovato feconda l’intuizione dell’Evangelii Gaudium (n.165) relativa alla “gerarchia delle verità”. Papa Francesco in quella magnifica Esortazione Apostolica invita a porre tutti gli “aspetti secondari” in stretto legame con il cuore del Vangelo, l’essenziale, il kerigma. E indica un ordine di priorità: l’annuncio dell’amore di Dio precede la richiesta morale; la gioia del dono precede l’impegno della risposta: l’ascolto e la prossimità precedono la  parola e la proposta. 

«La centralità del kerygma richiede alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna» (Evangelii gaudium 165). 

Le chiese vuote: monito di ciò che potrebbe accadere molto presto 

Durante i giorni del Covid Vita e Pensiero ha pubblicato un testo prezioso di un teologo,Tomáš Halík, della Repubblica Ceca, il Paese europeo certamente più ateo. “Il segno delle chiese vuote”, è il titolo, eloquente, del piccolo volume.  

Halik, un tempo consigliere del presidente Vaclav Havel, si chiede se questo tempo di chiese vuote e chiuse non rappresenti una sorta di monito per ciò che potrebbe accadere in un futuro non molto lontano: fra pochi anni esse potrebbero apparire così in gran parte del nostro mondo. Non ne siamo già stati avvertiti più e più volte da quanto è avvenuto in molti Paesi, dove sempre più chiese, e il loro possibile futuro  se non si compie un serio tentativo per mostrare al mondo un volto del cristianesimo completamente diverso.  

Abbiamo pensato troppo a convertire il “mondo” e meno a convertire noi stessi, che non significa un mero “migliorarci”, ma un radicale passaggio da uno statico “essere cristiani” a un dinamico “divenire cristiani”.” 

Una bella domanda. Sarebbe il caso, anche qui in terra bergamasca, di cominciare a dare alcune risposte.