Un aquilone per aprire vie di salvezza e di umanità. Un dialogo con Ermanno Olmi

A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana

Settimana scorsa abbiamo fatto memoria di don Roberto Pennati. Anni fa, quando ancora, benchè già malato di Sla, poteva muoversi, insieme a Daniele Rocchetti, don Roberto si recò a Milano ad incontrare Ermanno Olmi.
Questa è la trascrizione dell’ intervista.

A settant’anni compiuti ha realizzato, di nuovo, uno straordinario capolavoro che è riuscito – una volta tanto – a mettere d’accordo critica e pubblico: la storia di Giovanni de’ Medici, avventuriero e capitano di ventura, un uomo del Cinquecento che si è confrontato con la guerra ma, più ancora, con la vita e con la morte e con le grandi domande di senso che l’esistenza, inesorabilmente, porta con sé.

Stiamo parlando di Ermanno Olmi, il grande regista bergamasco – nato a Treviglio da una famiglia contadina il 24 luglio 1931 – autore di film, entrati, di diritto, nella storia del cinema. Eppure, nonostante età, fama e successo Olmi ha ripreso, di nuovo, a girare un altro film. Forse perché, come qualcuno ha scritto, egli stesso è un guerriero. Perennemente alla ricerca della verità delle cose, perennemente inquieto. Lo è anche la mattina che ci accoglie, nella sua piccola mansarda a ridosso del Castello Sforzesco. Sotto l’apparente tranquillità con cui parla, cogli la passione di un uomo a lungo tormentato da domande, preoccupato di dare sostanza alle risposte che nel corso della vita ha saputo darsi. E ricominciare ogni giorno da capo.

Quando stava girando “E venne un uomo…” lei venne in Seminario, nel periodo in cui stavano cominciando ad abbatterlo, per girare alcune scene. A quel tempo io ero un adolescente. Ricordo quante volte ci ha fatto girare il Miserere perché, diceva, “non era triste a sufficienza”… A proposito di quel film, mi pare di ricordare che lei affermò di non essere rimasto troppo contento…

Ha ragione. Il film mi era stato commissionato da un produttore ed in un primo momento mi ero ribellato all’idea di trasferire Papa Giovanni in un film. Sentivo che l’eco di questo Papa e della sua morte era giustamente legata alla simpatia dell’uomo. Allora ero abbastanza giovane e ebbi paura. L’idea di rappresentare Papa Giovanni attraverso un mediatore che non gli somigliava affatto, un attore estraneo, era un’idea un po’ troppo azzardata. Il pubblico, in fondo, amava Papa Giovanni perché sentiva che era un’anima vicina alla loro, ma quest’anima si configurava in un volto, in un atteggiamento, in un modo di esprimersi.. La gente amava Papa Giovanni anche attraverso la fisionomia dell’uomo, le caratteristiche fisiche… Mi rendevo conto di tutto questo, ma fino a quando abbiamo girato la parte relativa all’infanzia, alla vita in Seminario, un anticipo dell’“Albero degli zoccoli” – un film che già volevo fare precedentemente – non ebbi grandi timori. Cominciarono le difficoltà quando cominciammo a girare le scene successive: la troupe era spaesata e io pure. Mi prese il panico perché un film è sempre un costo notevole ma, al di là della penalizzazione anche economica del produttore, vi era il terrore che il tentativo di una comunicazione – il film appunto – non diventasse tale. All’uscita del film ci fu un vero e proprio disorientamento, sia da parte dei critici (ma questo, per la verità, non mi disturbava troppo), sia da parte del pubblico, che, come temevo, non si ritrovava e voleva vedere Papa Giovanni. L’unica consolazione, per me, fu che Pasolini amò molto il film. Scrisse una bellissima prefazione al libro tratto dalla sceneggiatura del film dove mostrò di capire perfettamente il mio tentativo di valorizzare i concetti, e quindi gli atteggiamenti dell’anima espressi in termini razionali, al di là della simpatia epidermica dei personaggi.

Il film peraltro uscì nel 1965, solamente due anni dopo la morte di Papa Giovanni…

Sì, il ricordo tra la gente era vivissimo. Paolo VI, che pure aveva una consapevolezza di sé, del mondo e della realtà, molto profonda, non aveva assolutamente né il carisma né l’impatto immediato suscitato da Giovanni XXIII presso il popolo. Se la stessa frase, famosa ed obsoleta, a proposito dei bambini e della carezza del Papa, l’avesse pronunciata Montini non avrebbe avuto, sicuramente, lo stesso effetto… Certo, questa è una osservazione che ci porta lontano, soprattutto guardando alla realtà di oggi. Siamo tutti, più o meno consapevolmente, attori sulla scena del mondo: occorre chiederci se, in una società come la nostra, l’aspetto esteriore non diventa determinante agli effetti del risultato più della stessa qualità. La domanda che mi facevo allora e che vale anche oggi è: cos’è che ha forza? L’idea – espressa in parole – o il personaggio? La sostanza o l’immagine?

Eppure lei, per vocazione e per mestiere, trasforma la sostanza in immagine…

Lo dicevo ieri a Goffredo Fofi. Siamo in un tempo nel quale la realtà è così continuamente trasformata, ridotta o amplificata, che anche dentro le discipline della comunicazione tu fai fatica a capire dove sta la verità… A volte, ho la sensazione che viviamo in una società del tutto fasulla, dove niente è più vero. Dove si camuffa il dolore – che pure esiste – e dove tutto viene talmente mistificato dalla rappresentazione. L’esito è cadere in una narcosi generale.

Il cinema non è una forma di resistenza?

Si, certo. Però a volte hai la tentazione di pensare che sia una resistenza inutile e che alla fine l’unica vera via d’uscita sia la malattia catartica. Hai voglia di prendere aspirine… la malattia si deve sfogare altrimenti se non ci sono più anticorpi devi pagare il dazio con dolore. Ci sono momenti in cui devono arrivare le cavallette a distruggere tutto per ricominciare… Non avete anche voi la sensazione che stiamo andando verso scelte che dire rischiose è dire un eufemismo?

Che cosa le fa paura del tempo che viviamo?

Qualche giorno fa ho rilasciato, ad una giornalista, una dichiarazione che difficilmente pubblicherà. In quell’occasione dicevo che il Papa dovrebbe scomunicare coloro che oggi sono artefici di violenza sulla natura. È chiaro che a questi non importa nulla della scomunica papale. Ma sarebbe un gesto importante, un segnale. Nel giardino dell’Eden c’erano due alberi: al centro vi era l’albero della vita, non quello del bene e del male. Il Padreterno ha permesso all’uomo di scegliere tra bene e male perché ne avesse consapevolezza ma ha pure promesso guai per chi tocca l’albero della vita. A questi manderà gli angeli con la spada di fuoco… Come è possibile allora che da diversi anni a questa parte si stia operando sconsideratamente contro la natura e la Chiesa non prenda posizione con una scomunica? Hanno bruciato Giordano Bruno per molto meno… Mi viene da pensare se le cosiddette convenienze non siano un fattore che in qualche modo c’entrino con questo silenzio. Certo, va benissimo battersi contro l’aborto ma tutte queste operazioni contro la natura, profondamente cambiata e trasformata, non meritano una dura battaglia? Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di qualcuno che si assume la responsabilità di rappresentarci nella ribellione e vorrei che fosse l’autorità della Chiesa. Vorrei tanto il Papa scomunicasse questi signori… Il testo biblico – fondamento della verità cristiana – è chiaro e inequivocabile. Che dobbiamo fare? Raccogliere le firme? Io l’ho detto in Vaticano, l’ho detto a persone vicine al Papa…ma non mi pare che tutto ciò abbia sortito qualche effetto.

Quando si vede un suo film si è colpiti anche dalla lentezza. Lo scorrere lento di immagini, i tempi lunghi, rappresentano il desiderio di dare giusto valore al tempo, di riappropriarsi della realtà…

Dico spesso ai ragazzi che incontro: perché parlate così in fretta? Avete mai notato? Parlano in maniera velocissima e non faccio in tempo a seguirli. Ho quasi l’impressione – anche guardando i cronisti della televisione – che oggi ci sia un presupposto di non fiducia nella parola. Vedete, io sono un po’ sordo e qualche volta chiedo ai ragazzi cosa, un loro compagno, ha appena finito di dire. Essi mi rispondono: “ mah, mi pare che…“. È come se arrivasse la sensazione della notizia ma non si percepisce la messa a fuoco della stessa. Figuriamoci con i sentimenti e con tutto il resto: tutto scorre via con tempi velocissimi. Mi dicono che fanno crescere l’insalata Soncino in una notte: in un giorno la piantano e l’altro lo raccolgono. Questa accelerazione, questo rompere i tempi naturali, è un altro spaesamento terribile che, ve lo dico con franchezza, mi sconcerta non poco.

C’è un film del nostro tempo che, a suo avviso, racconta bene lo spaesamento della nostra epoca?

Non so… L’altra sera sono uscito a vedere “Paz”, il film di film di Renato De Maria su Andrea Pazienza e il movimento studentesco del 1977. Io non conoscevo questo disegnatore bolognese morto per droga. È un film dolorosissimo, spregiudicato, a suo modo pervaso da una certa sacralità, che mi ha lasciato dentro un pò di disorientamento, che mi ha posto degli interrogativi. È un film dove viene espressa, in termini molto crudi e molto dolorosi, in un apparente atteggiamento di scanzonata ribellione e disinvoltura, la fatica dei giovani del nostro tempo. Commentavo con uno dei produttori del film: questa è una generazione che ha vissuto una battaglia terribile. La generazione che ha vissuto la guerra, che è sopravvissuta alla Russia, come il mio amico Mario Rigoni Stern, ha vissuto tragedie terribili, eppure io credo che queste sono meno dolorose della tragedia delle nostre generazioni falcidiate dal vuoto. In fondo, nell’illogicità del conflitto militare c’era una logica. Assurda ma c’era: c’era un esercito che sparava contro di te e tu sparavi contro di lui ma quale logica intravedere dietro il vuoto, il nulla? In una società cosiddetta del benessere qual è la logica? A questo punto preferisco la fame, la pellagra, quanto meno hai qualcosa contro cui combattere.. Certo che ci sono risposte da dare ma forse non abbiamo mai posto la domanda giusta per dare le risposte giuste… Al disagio di quei ragazzi non è ancora stata data una risposta.. ma si sono aggiunti altri disagi, isolamenti che portano addirittura all’autodistruzione. E quello che probabilmente è il vero nemico ci viene propinato come il vero amico: l’apparenza, la superficialità, il bruciare i sentimenti

Lei è stato a lungo malato. Quanto è cambiata la sua percezione della vita dopo l’esperienza, lunga e faticosa, della malattia?

È cambiata tanto. Ricordo che, durante i primi momenti, avevo la convinzione che la vita dipendesse molto, o quasi esclusivamente, dall’efficienza fisica. Mi dicevo: “Adesso non cammino più, non potrò più fare il mio lavoro.. dovrò dipendere…”. È stato un periodo bruttissimo perché sono stato obbligato a passare attraverso una resa dei conti che mi pareva concludersi con un vero e proprio fallimento totale. In quel periodo volevo morire… Dopodichè sono stato costretto a fare i confronti e a chiedermi: “Senza più queste facoltà che margine ho per vivere?” Allora ho cominciato a pensare agli affetti, ai pensieri che ancora affollavano la mia mente e il mio mondo interiore e ho cominciato a capire che c’era ancora un ampio spazio. A poco a poco mi rendevo conto che cambiavano le modalità con cui potevo vivere la tua vita. Vedete le mie mani deformate? Io prima suonavo il pianoforte, adesso non posso più farlo. È finita la mia vita? No, la mia vita non è fare il pianista: era un ambito importante ma se mi sposto e vado in un altro ambito vedo un ampio spazio davanti. Così è stato anche per il cinema. Quante volte mi sono chiesto: “Come farò?” Prima riprendevo tutto io con la macchina…Poi t’accorgi che riesci a fare ugualmente. Probabilmente, se non fossi più riuscito a fare del cinema avrei dettato al registratore delle cose…Se capisci il valore della vita comprendi che la puoi vivere con modalità diverse…

A sentirla parlare pare intuire che anche dentro le grandi contraddizioni della vita c’è sempre una via di salvezza…

In un racconto di Borges si narra di una crudelissima pirata che sta portando alla disperazione un principe. Lui non sa più come sconfiggerla, fin quando ha un’idea: le manda degli aquiloni. La pirata si commuove, perde sicurezza e il principe vince. Io non voglio sembrare un bonaccione, un santo, perché non lo sono. Ma sono convinto che in ogni situazione antipatica o addirittura odiosa, esista sempre un pertugio, una porta per dialogare, cominciando con gli aquiloni… C’è sempre una via di salvezza aperta. Non bisogna rinunciare. Magari, come nel mio caso, la via ti viene indicata da una parola: fu mia moglie, un giorno, a dirmi che non me ne potevo andare perché la mia famiglia aveva bisogno di me. Io ho avuto bisogno in quel momento di quella parola che mi ha scosso.

Lei è certamente un grande esempio di regista che ha cercato di portare sul grande schermo alcune grandi domande di senso e alcune problematiche religiose. Cosa ha rappresentato l’esperienza cristiana?

Un’interrogazione continua. La figura di Cristo, se appena appena ne incroci lo sguardo, è difficile togliertela dai piedi… Avere in mente questo riferimento è coglierlo come un rompiscatole, uno stimolo più vivo… Io infatti dico sempre che sono un aspirante cristiano, non un cristiano, perché avvicinarsi al modello e accettarlo totalmente è un percorso lungo e impegnativo… però senti che non ci sono vie d’uscita… Ogni volta che ti giri il gallo è sempre lì che ti tiene d’occhio.

Cosa le dà fastidio?

A me da fastidio quando viene celebrato. Celebrarlo è un modo per evitarlo. La celebrazione lo riduce ad una bella immagine, ad un fantoccione. Gesù Cristo guai a celebrarlo. Con lui bisogna scontrarsi, passare anche dal rifiuto. Eppure, anche in quei momenti, è sempre lì. Come quando sei innamorato: non vorresti essere distolto da te ma rimani prigioniero. Tutte le volte che ti confronti senti che devi modificarti e fai fatica perché in fondo fa comodo avere successo, avere riscontri, fa comodo non avere responsabilità.

Come è possibile, con il cinema, esprimere questo scontro…

Io ho fatto un lungo documentario, che dura un’ora e venti minuti, intitolato “Lungo il fiume”… Si tratta di una vera e propria messa nascosta dentro le pieghe di questo documentario che narra lo scorrere del Po, dal Monviso fino al mare. Questa piccola ampolla d’acqua (non c’entra niente Bossi…) è il vangelo di Giovanni. Certo, alcune frasi le ho un po’ modificate anche perché volevo un po’ interpretarle, non volevo fare un duplicato. Volevo rileggerlo, un paio d’anni dopo l’esperienza della malattia, con gli occhi di un uomo che cerca di tenere aperte le domande.

La stagione del cinema sacro è finita?

Mah… dipende per cosa intende per sacro… Già vi dicevo che il film su Pazienza a suo modo esprime una certa sacralità. Oggi vi sono degli autori che sono autentici poeti anche se non parlano del sacro secondo le realtà convenzionali. Che usano l’immagine per mostrare l’invisibile. Molti autori del cinema dei paesi cosiddetti sviluppati fanno film di grande valore. Vengono però emarginati dall’arroganza dalla distribuzione commerciale.

Bibbia e cinema: lei ha provato con Genesi… Ma è possibile mettere in immagini il testo sacro? È un’operazione che rifarebbe?

Sì, anche se in altro modo. C’erano delle condizioni che ponevano dei vincoli che, peraltro, io non ho rispettato. Ossia un tipo di riduzione della Bibbia in termini molto divulgativi. Credo che bisogna intendersi su cosa e come divulgare: la sostanza della Bibbia o la forma… Devo dire che è stata un’operazione che non mi ha penalizzato sul piano della libertà e che però rifarei in un altro modo. Ci sono cose che mi convincono ancora, altre che rifarei in maniera più marcata. Penso al tema dell’albero della vita: nel film è appena accennato, sarebbe stato opportuno svilupparlo di più… D’altronde, c’era un comitato di studiosi e di teologi… Non è facile affrontare questi temi: bisognerebbe fare più tentativi… purtroppo i film, a differenza dei quadri, ne fai una volta sola…

Cosa ci dice a riguardo del proliferare delle fiction su soggetti religiosi?

Voi non siete mai andati alle gite del sacro in quei luoghi dove vendono di tutto? Anche la televisione vende i suoi santini. I santini, in questa stagione, si vendono a piene mani. I santi fanno cassetta. Non solo nella cassetta delle offerte…

Un ultima domanda. Nel suo film – Il mestiere delle armi – ho visto tanti bambini. Come mai tanti bimbi sullo sfondo della guerra?

È per ricordare che i bambini ci guardano. Se ricordassimo che il loro sguardo è sempre su di noi, forse saremmo migliori.

 

A cura di Daniele Rocchetti e don Roberto Pennati