Verso quale democrazia?

I parlamentari hanno definitivamente votato per la riduzione del numero dei parlamentari. Chissà, forse è la strada giusta. Ma in questa autoriduzione democratica un po’ di amarezza la si prova. Per salvarsi la politica va a vivere in un appartamento più piccolo, forse più adatto alle sue attuali esigenze e risorse, dove ci sta meno gente e dunque dove il luogo diventa meno centrale. Se il parlamento è il cuore della politica, allora la politica perde centralità. Se invece la politica si decide da altre parti, allora si può anche accettare la riduzione del Parlamento: almeno si risparmia (tenendo presente che le dittature costano pochissimo).
La questione ruota attorno al rapporto tra la politica, il potere e il popolo, su cui si possono individuare almeno una ragione quantitativa e una qualitativa. La questione quantitativa è che se riteniamo che la politica – ovvero le decisioni in merito alla vita collettiva del presente e del futuro – dipenda dalle decisioni del popolo, allora è ragionevole pensare che l’assemblea rappresentativa sia vivace, popolata e partecipata. Riducendo il numero dei parlamentari ci si avvia definitivamente verso carriere politiche professionistiche, dove i parlamentari rischiano di perdere il contatto con le comunità dalle quali provengono, perché in territori più vasti dovranno rappresentare troppe comunità. E questo porterà con sé una maggiore astrazione della politica. Pur tenendo presente che i parlamentari italiani sono comunque troppi se paragonati ai parlamentari di altri Paesi, rimane il fatto che meno parlamentari significa meno popolo nelle istituzioni.
C’è poi una ragione qualitativa. Un Parlamento ricco di popolo, di mestieri e di estrazioni popolari differenti è stato il sogno degli anni dopo la guerra. Dal Parlamento ottocentesco, ridotto, composto dall’élite e poco più, in parte votato e in parte nominato, si arrivava ad un Parlamento dove i molti “mondi sociali” erano presenti: dall’operaio al docente universitario, si diceva ieri, dal rider al consulente finanziario, si potrebbe dire oggi. Forse dobbiamo prendere atto del fallimento di questo modello, aperto e realmente popolare, e la sua sostituzione con un modello per il momento poco chiaro, poco esplicitato. Si può ridurre di un terzo, anche di due terzi il numero dei parlamentari, perché la questione non è il numero ma il modello: quale rapporto ipotizziamo tra popolo, potere e politica? Se non si risponde a questa domanda, si fatica a capire ogni riduzione.
Al momento sembra che della politica prevalga una concezione ragionieristica (quando va bene) o di riduzione del danno (quando va male). Forse è proprio così: la politica trattata come danno, come elemento da ridurre, come dipendenza dalla quale proteggersi. La prossima mossa quale sarà? L’abolizione del vincolo di mandato?
Per molti anni il dibattito pubblico si giocava sul governo, dove si è capito che è bene avere un esecutivo stabile e duraturo per decidere nell’ordinarietà e gestire i processi, ma anche sufficientemente forte e autorevole per decidere nell’emergenza. Ma almeno nel Parlamento pensavamo che ci potesse essere quel sano caos democratico in cui dibattere, litigare, approfondire o anche investire il giusto tempo per leggere la condizione che stiamo vivendo, con le competenze che abbiamo e che vengono dalle nostre comunità, che creano senso di appartenenza e di partecipazione perché in tanti potrebbero essere eletti.
Sarebbe utile aprire un dibattito serio e popolare su quale democrazia vogliamo per i prossimi anni, senza procedere secondo la logica di un provvedimento alla volta ma provando a vedere quale sia “il pacchetto” completo. Non ci vorrebbe molto, almeno saremmo consapevoli di cosa sta accadendo.

 

Roberto Rossini