Ed ecco un altro muro, quello del Brennero! Ciò che colpisce non è il fatto che il governo austriaco intende erigere, in Europa, l’ennesimo muro.
Il mondo globalizzato di oggi ne conta più di sessanta, per un totale di circa ottomila chilometri. Se infatti nel 1989, mentre i tedeschi picconavano il muro di Berlino, ce n’erano circa quindici (la maggior parte dei quali retaggio delle logiche della guerra fredda), oggi, a 27 anni dalla caduta simbolo, i muri più o meno annunciati, costruiti in silenzio o riciclati da vecchi conflitti e resi bastioni anti-immigrazione, continuano a proliferare.
Il muro che separa l’India dal Bangladesh è lungo più di tremila chilometri. Il più celebre, quello fra gli Stati Uniti e il Messico si estende lungo tre Stati: l’Arizona, il Texas e la California. Altri sono meno noti, come quello di San Paolo in Brasile o di Lima, muri che separano le favelas dai quartieri ricchi. E poi ancora i muri dell’Europa, in Spagna, in Grecia, in Bulgaria, in Ungheria: muri di cemento e non solo, in cui le sofisticate nuove tecnologie (sensori, telecamere termiche, radar e droni) giocano un importante ruolo e rappresentano una vera e propria manna per gli addetti del settore. Secondo Elisabeth Vallet, autrice del volume Borders, Fences and Walls – State of Insecurity?, il mercato delle frontiere militari, nel 2011, guadagnava 17 miliardi, a cui bisogna aggiungere i costi della costruzione dei muri (da 1 a 6,4 milioni di dollari per chilometro negli Stati Uniti) e quello della manutenzione (nei prossimi 20 anni si prevede una spesa di circa 6,5 miliardi di dollari per la frontiera Stati Uniti/Messico). Insomma, si tratta di un’importante fetta di mercato che le grandi imprese si contendono e per la quale si associano con piccoli imprenditori locali, creando paradossalmente una “globalizzazione del mercato della frontiera fortificata”.
Ma allora l’euforia del 1989 è stata solo una chimera? Sembrerebbe di sì, perché se da una parte la globalizzazione ha connesso con maggiore facilità le diverse parti del mondo, dall’altra, ha fatto emergere con particolare forza le disuguaglianze, che c’erano anche prima ma che ora sono state definitivamente smascherate. Oggi i muri che dividono le persone del “mondo di sotto” da quelle del “mondo di sopra” non vengono più eretti per ideologia, ma sostanzialmente per la paura dell’avanzata dei poveri, di quel “mondo offeso”che viene quotidianamente oppresso e affronta con rassegnazione il proprio destino.
Infatti, si diceva, non colpisce tanto il fatto che in Europa si proponga di erigere l’ennesimo muro, ma la generale reazione della comunità. Se si prendono in considerazione molti degli articoli scritti sul muro del Brennero, si nota che sono state prevalentemente riportate le preoccupazioni degli effetti sull’economia che il muro avrebbe causato. Si è parlato dell’ansia dei commercianti che avrebbero ritardato nelle consegne dei beni trasportati; si è scritto delle perdite economiche degli outlet di zona che avrebbero avuto meno passaggio di persone in virtù dei lunghi controlli alla dogana e di quelle legate al mercato del turismo. Al contrario, poche parole sono state spese sulla questione umanitaria e sull’aumento del gap tra ricchi e poveri; e ancora…non una domanda su dove andranno a finire le persone che non riusciranno a varcare quella frontiera.
Così come colpisce la lentezza, l’indifferenza e l’atteggiamento schizofrenico dell’Europa. L’European dream del secondo dopoguerra, il sogno di costruire una comunità senza guerre, frontiere e controlli, sta tristemente scemando. Il muro sta ormai diventando l’unica “soluzione tecnica” messa in atto dai Paesi membri, senza la minima preoccupazione di risolverne il nodo politico. Infatti, la logica che sta dietro alla costruzione del muro consiste nel pensare di rimediare a quest’emergenza umanitaria con una chiusura che sia il più ermetica possibile. L’effetto di questo atteggiamento è che la ricerca della soluzione politica ai problemi legati all’immigrazione è completamente soppiantata dalla soluzione tecnica (costruzione del muro), sviluppando una dinamica perversa, in cui, come afferma Saskia Sassen, autrice di Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, si continua a buttare “la soluzione sui migranti e non sulle cause”.
Occorre invece un cambio di passo e rendere visibile l’invisibile, portando in superficie le vecchie e nuove soglie dell’esclusione. Tali soglie sono molte e diversificate: se ancora oggi la maggior parte dei flussi migratori sono la conseguenza di guerre sempre più innescate da quella strategia del caos neocolonialista e votata al mero profitto, a breve altri fattori genereranno ulteriori movimenti di persone che fuggiranno dalle loro terre. Basti pensare alla fuga di molti giovani dalla violenza urbana delle città dell’America del Sud; a quella creata dal land grabbing dovuta alle estrazioni minerarie e/o allo sfruttamento delle coltivazioni intensive, dettate da un’economia sempre più aggressiva e irrispettosa che impoverisce le zone rurali o che ne avvelena terre e acque; e infine alla fuga dalla desertificazione dei terreni dovuta ai cambiamenti climatici. Tutti questi fenomeni creeranno una perdita massiccia di habitat, che spingerà sempre più le persone a fuggire nel Nord del mondo.
Fino a poco tempo fa le persone in fuga si sono riversate soprattutto nel Sud del mondo. Secondo il rapporto annuale UNHCR 2015 ci sono sulla terra quasi 20 milioni di rifugiati, circa 38 di sfollati interni e quasi 2 milioni di richiedenti asilo. I paesi in via di sviluppo ospitano l’86% dei rifugiati e il 25% di essi si trova addirittura nei paesi meno sviluppati del pianeta. Tra i paesi ospitanti il primato spetta alla Turchia (1,56 milioni di persone) seguita dal Pakistan, dal Libano, dall’Iran, dall’Etiopia e dalla Giordania. Il Nord del mondo e l’Europa ne ha accolto solo la minima parte e spesso a proprio vantaggio, approfittando di una manodopera a basso costo e favorendo l’attuale dumping salariale che ricade su tutti i lavoratori, anche gli autoctoni.
Già nel 1991 lo scrittore Jean-Christophe Rufin affermava: “come pensare che il mondo vuoto possa all’infinito restare impermeabile al mondo pieno?”. Di fronte a questa domanda e ai numerosi e diversificati arrivi, l’Europa continuando a utilizzare vecchi strumenti e modelli riesce solo a dare risposte che guardano al passato, anziché elaborare nuove categorie e linguaggi che guardano al futuro e che siano in grado di cogliere i numerosi cambiamenti in atto. Eppure è ormai chiaro che i muri non potranno più contenere il movimento delle persone. Anzi, queste continueranno a cercare nuove rotte e nessuno le potrà arrestare, proprio come l’acqua che trova sempre una sua via di fuga.