Mattarella inviti tutti a riscrivere un patto educativo e formativo

Le dimissioni del ministro dell’istruzione, al di là degli aspetti strettamente politici che tutti conosciamo (e non sappiamo ancora se apprezziamo), posseggono anche un qualcosa di simbolico e sicuramente offrono un’opportunità programmatica. L’istruzione e la ricerca – si vede a occhio nudo – non sono tra le priorità di questo governo, nonostante la scuola fosse citata al primo punto e l’università come obiettivo strategico. Confidiamo nelle biografie dei neo-ministri, Lucia Azzolina e Gaetano Manfredi.

Forse dovremo attendere ancora qualche mese. Non che i precedenti governi fossero più avanguardisti dell’attuale o che gli attuali avversari del governo giallo-rosso pretendano più istruzione o promettano più formazione. Anzi, ci pare che non appaia neppure, nelle parole di chi si oppone.

Al momento registriamo il fatto che, appunto, il ministero sia stato (ancora una volta, dopo una decina d’anni) spacchettato, sdoppiato tra istruzione e ricerca. Questa scelta dovrebbe generare due reali opportunità: alzare il livello medio di istruzione, che è un ridurre le diseguaglianze; dare impulso all’innovazione scientifica e tecnologica per modernizzare il Paese. Abbiamo ancora speranza.

Per quanto concerne il primo obiettivo, più ricerche dimostrano che esiste una correlazione positiva tra titolo di studio e salute: più il titolo di studio è alto e meglio si sta. L’istruzione è implicitamente una politica sanitaria. Si sa che esiste una correlazione positiva anche tra titolo di studio e tasso di occupazione: secondo i dati Istat del 2017 la differenza coi diplomati è di ben 14 punti percentuali.

L’istruzione, assieme alla formazione professionale – che in Italia è ancora un’esperienza troppo ridotta -, è realmente una politica attiva del lavoro. Anche solo questi pochi dati dovrebbero convincerci del fatto che investire in istruzione e formazione sia necessario, perché curando il capitale culturale di un Paese si riducono le diseguaglianze. L’istruzione è anche motore di cittadinanza. La scuola e i centri di formazione, ancora oggi, sono il luogo più aperto e più opportuno per la costruzione della cittadinanza, così utile alla democrazia, ad ogni comunità. Compresa quella professionale.

In questo senso, è il secondo obiettivo, si sa che l’aumento della competenza in termini di innovazione dei processi e dei prodotti generano direttamente sviluppo economico. È lo stesso Ministero dello sviluppo economico a spiegare che maggiori investimenti in educazione e istruzione hanno effetti immediati sui rendimenti privati individuali (si trova lavoro prima), sui rendimenti sociali (produttività e crescita complessiva) e sugli effetti innovativi e di rottura (incoraggia l’imprenditorialità).

Nel bel mezzo di un’Italia che presenta qualche strappo tra chi ha di più e chi ha di meno, tra chi vive e lavora al nord e chi vive e lavora al sud (ecco perché occorre ancora insistere sui Lep, per garantire che l’autonomia differenziata sia anche un’autonomia… uguale), tra chi è uomo e chi è donna, tra chi sa di più (è più preparato) e chi sa di meno, ci pare che il tema dell’istruzione sia una leva di particolare importanza per intervenire anche sugli altri strappi.

In Italia il titolo di studio prevalente è il diploma delle medie inferiori, ma (per fortuna) oltre il 60% degli italiani tra i 25 e i 64 anni ha un diploma. Siamo ancora lontani della media europea, dove il dato supera invece il 75%, ma dovremmo essere in crescita. Non bisogna mollare su questo punto, soprattutto nel sud, dove quasi un giovane su 6 lascia precocemente la scuola. Questi dati sono un selfie del Paese che studia (poco).

Su queste politiche è ora di riaccendere l’attenzione. Presidente Mattarella, nel tradizionale discorso di fine anno non dimentichi l’istruzione, la formazione e la ricerca! Ci inviti a riscrivere un grande patto educativo e formativo per la Repubblica che sarà! Sarebbe un appello importante per ricominciare a… studiare.

 

Roberto Rossini