Recovery Plan, le proposte delle Acli

Martedì 2 febbraio 2020, nel corso dell’audizione alla XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, il Presidente nazionale, Roberto Rossini, e il Vicepresidente e Presidente del Patronato, Emiliano Manfredonia hanno presentato le proposte delle Acli sul Piano nazionale di Ripresa e Resilienza.

Il Piano, approvato dal Consiglio dei Ministri il 12 gennaio scorso, è stato trasmesso alle Camere, che ne hanno avviato l’esame attraverso un ampio e intenso ciclo di consultazioni. Le dimensioni d’intervento del Piano sono tali da rappresentare un’opportunità unica, e probabilmente irripetibile, per ridisegnare le direttrici e il modello di sviluppo del nostro Paese verso un’economia socialmente e ambientalmente sostenibile.

Come noto, il PNRR si basa su tre assi strategici: (1) digitalizzazione e innovazione, (2) transizione ecologica e ambientale, (3) inclusione sociale. Questi assi sono declinati in sei aree di intervento, chiamate Missioni (digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per una mobilità sostenibile; istruzione e ricerca; inclusione e coesione; salute) e orientato da tre priorità trasversali: donne, giovani, Mezzogiorno.

Le Acli, condividendo gli asset strategici e le priorità individuate dal Piano, ritengono di dover segnalare alcune importanti questioni di metodo e formulare alcune proposte sulle Missioni di loro più diretta competenza, in particolare sulla Missione 4 (Istruzione e Ricerca), sulla Missione 5 (Inclusione e Coesione) e sulla Missione 6 (Salute).

Sul metodo, si ritiene che debbano realizzarsi – dotandosi di opportuni strumenti – tre condizioni: la prima è che le infrastrutture che si andranno a creare favoriscano davvero un radicale cambio di paradigma economico e sociale secondo gli obiettivi promossi; che l’efficienza degli interventi sia improntata alla rapidità e alla trasparenza dei processi posti in atto; che la programmazione e la realizzazione degli interventi veda il coinvolgimento dei soggetti della società civile, della loro competenza e della loro capacità di raggiungere e rendere attivamente partecipi ampi strati della popolazione, a partire dai più marginali.

Nel merito, le ACLI formulano le seguenti proposte:

 

Le politiche attive del lavoro, un’infrastruttura parallela alla traiettoria lavorativa

 

Gli effetti della crisi pandemica ci hanno consegnato due importanti evidenze: la prima è che capacità di resilienza di un Paese dipende in buona parte dal livello delle competenze possedute dall’intero sistema; la seconda è che le crisi tendono ad acuire i divari preesistenti nel mercato del lavoro, ovvero ad incrementare disuguaglianze ed esclusioni.

Come sappiamo, in Italia il livello medio di istruzione e formazione della popolazione è tra i più bassi d’Europa. Viviamo la contraddizione per la quale i giovani e le donne sono contemporaneamente i soggetti più istruiti e quelli maggiormente esclusi. E quella per la quale i percorsi di istruzione e formazione – come quelli professionalizzanti – che hanno garantito le migliori performance di occupabilità siano indisponibili per la potenziale platea di giovani che vogliano accedervi.

I fondi del Next Generation Eu possono – vorremmo dire devono – essere un’occasione per creare un sistema nazionale integrato, e parallelo a quello scolastico, per l’apprendimento permanente e il riconoscimento delle competenze della popolazione adulta. Questo piano potrebbe realizzarsi attraverso lo sviluppo di un Piano straordinario per la competitività e l’occupazione, in cui il lavoratore è collocato nel più ampio spettro sociale: lavoro, previdenza, assistenza, sanità, istruzione e formazione spesso si muovono in sincrono, sono variabili interconnesse. Il progetto di PNRR offre alcune indicazioni interessanti, a questo proposito. Un primo passo in tal senso è il ripensamento dei Centri per l’impiego, esito di un pensiero che nasce a metà degli anni Novanta e che ora necessita di un tagliando, di un ripensamento, soprattutto alla luce dei fenomeni emersi col Covid. Certamente i Centri per l’impiego andranno connessi con i Centri di formazione professionale, affinché possano nascere dei competence center capaci di valorizzare il capitale umano che rischiamo di sprecare, se non operiamo seriamente azioni di skilling e re-skilling dei lavoratori. Sono altrettanto urgenti tutte le misure volte a favorire lo sviluppo di un sistema formativo che offra concrete opportunità di impiego come la realizzazione di infrastrutture adeguate per lo sviluppo della Formazione Professionale in tutte le Regioni, in modo da ridurre il più possibile i rischi di disallineamento tra studio e lavoro e la progettazione di specifici interventi volti a disciplinare e favorire gli incubatori di lavoro e d’impresa. Inoltre, per le fasce più vulnerabili e a rischio di esclusione lavorativa e sociale si potrebbero pensare interventi specifici: l’integrazione del Reddito di Cittadinanza con i Patti per l’imprenditoria civile, che consentano ai beneficiari della misura (anche attraverso l’Assegno di Ricollocazione) di avviare un percorso di inclusione sociale e lavorativo volto ad nuove imprese sostenibili e responsabili o di riconvertire imprese esistenti; la previsione dell’obbligo di formazione professionale nella CIG anche grazie al rifinanziamento e all’estensione del Fondo “Nuove competenze”.

Per favorire l’occupazione femminile, ancora troppo bassa nel nostro Paese, andrebbero rafforzati tutti gli istituti che possono aumentare il coinvolgimento degli uomini nel lavoro di cura e familiare. In particolare, andrebbe maggiormente finanziato il congedo di paternità. Infine, quando si parla di politiche del lavoro, non possono non prendersi in considerazione le prospettive demografiche del Paese e i fenomeni migratori. Le migrazioni, infatti, se accompagnate da sane politiche di integrazione, determinano una crescita prima culturale e poi economica dei paesi interessati da questi fenomeni. Tra le varie misure, si potrebbero prevedere percorsi di “mobilità assistita”, anche attraverso protocolli di cooperazione tra l’Italia e i Paesi di emigrazione che prevedano il coinvolgimento di imprese e di organizzazioni capaci di integrare le politiche del lavoro con le politiche di inclusione.

 

Welfare e Terzo Settore, verso un’economia civile

 

La crisi pandemica ha ulteriormente acuito i divari preesistenti, incrementando ed esacerbando disuguaglianze ed esclusioni. La disparità delle risorse e la discrezionalità nella loro allocazione, i divari territoriali, la debolezza strutturale di alcuni istituti, una dinamica poco virtuosa tra il principio di sussidiarietà e quello dell’autonomia differenziata, tutti questi elementi – certamente non nuovi – insieme alla risposta solidale che comunque le comunità hanno messo in atto in questo periodo, hanno evidenziato ancora di più la necessità di pervenire stabilmente ad un modello di welfare territoriale integrato, che realizzi in modo funzionale la collaborazione tra ente pubblico e soggetti del privato sociale. Si tratta di dare stabilità, solidità e continuità a quel modello di economia civile e sociale che abbiamo visto all’opera – tra mille difficoltà – in questi lunghi mesi. Per farlo, sarà necessario rafforzare la Rete di protezione sociale e disegnare un modello di welfare che dovrà mettere insieme il pubblico col privato sociale, il sociale col sanitario, l’individuo con la collettività, attivando connessioni tra il Terzo settore e le istituzioni pubbliche per dare risposte ai bisogni dei cittadini e delle comunità in un’ottica integrata. In questo senso è urgente completare sia la Riforma del Terzo settore sia la definizione del Lep, ossia i livelli essenziali delle prestazioni, dando attuazione ad una norma espressamente prevista da tempo e offrendo una adeguata dotazione finanziaria.

È inoltre urgente dotarsi di una infrastruttura digitale per l’informazione, la trasparenza, la richiesta di prestazioni, l’elaborazione dei dati, l’analisi degli stessi per conoscere di più e meglio il proprio territorio. Va in questa direzione la piattaforma digitale per la disabilità, pensata per aiutare le famiglie che registrano la presenza di un diversamente abile.

La rete di protezione sociale andrebbe completata con l’adozione di un Action Plan, un piano nazionale per l’economia sociale, per finanziare lo start up e il consolidamento di cooperative e imprese sociali, di associazioni e gruppi di volontariato: rinforzare questi soggetti significa rinforzare i soggetti che si fanno carico delle fragilità.

 

La previdenza, un nuovo patto previdenziale

 

In tema di crescita inclusiva e coesione sociale, riproponiamo le proposte già avanzate dal Patronato Acli per la realizzazione di un sistema previdenziale che possa rispondere a criteri di equità, solidarietà intergenerazionale, certezza dei diritti e uguaglianza di genere. Per arrivare alla definizione di un siffatto sistema previdenziale è necessaria innanzitutto una progettazione “non elettorale” ma di lungo periodo, che si proietti nell’arco dei prossimi 20/30 anni. Le nostre proposte prevedono l’introduzione di sistemi di flessibilità in uscita (individuando parametri sociali e incentivi nella rotazione del personale), che consentano l’accesso alla pensione ad una libera età opzionabile a partire da un requisito anagrafico minimo, con un possesso minimo di 20 anni di contribuzione e con un rendimento pensionistico crescente o decrescente a seconda dell’età di accesso alla pensione, ma anche l’istituzione di una “pensione di inclusione”, ossia di un trattamento di garanzia che assicuri in presenza di uno stato di bisogno economico un reddito dignitoso. In un’ottica solidaristica, è inoltre prioritario abolire ogni livello soglia di importo pensionistico minimo quale condizione di accesso alla prestazione per favorire i lavoratori con carriere più frammentate e con retribuzioni più basse, tipiche per i giovani e per le donne. Tra le altre misure volte a ridurre il divario pensionistico di genere, riteniamo utile richiamare sia la possibile introduzione di una temporanea “fiscalizzazione” dei versamenti contributivi gravanti sul reddito da lavoro indirizzata alle lavoratrici neo-madri, in modo da ridurre il “cuneo fiscale” con oneri a carico della collettività ed aumentare, di conseguenza, il livello dello stipendio netto rispetto alla retribuzione lorda, sia la previsione di una copertura contributiva figurativa per tutti i periodi in cui le donne si astengono dal lavoro per provvedere a carichi di cura famigliari. Alla definizione di un sistema previdenziale maggiormente equo contribuirebbe anche l’introduzione del parametro ISEE, piuttosto che i redditi Irpef, per la rilevazione dello stato di bisogno funzionale al riconoscimento delle prestazioni collegate al reddito per prestazioni pensionistiche: ciò consentirebbe una valutazione più realistica e appropriata del complessivo assetto economico e patrimoniale del nucleo familiare. Andrebbe inoltre rilanciata la previdenza complementare secondo le seguenti direttrici: obbligatorietà/automatismo di un’iscrizione “base” ad un fondo di previdenza complementare; formazione dei giovani sui temi dell’educazione finanziaria e del risparmio previdenziale; reversibilità temporanea della scelta di adesione alla previdenza complementare per i neo-iscritti; previsione di benefici/incentivi anche per i datori di lavoro.

 

La salute, un sistema di comunità

 

La pandemia ci ha insegnato che non possiamo pensare alla salute solo in ottica “riparativa”, quando è danneggiata e va “riparata”. Di qui, la necessità di superare l’idea che la salute si faccia solo nei centri di cura, negli ambulatori, negli ospedali e focalizzarsi maggiormente su una medicina protettiva di comunità, che rifletta le caratteristiche sociali, demografiche ed economiche dei diversi territori. Diverse sono le leve che, potenziando la medicina di prossimità, sono in grado di portare ad cambio radicale. Riconfigurare il sistema di offerta di servizi sociosanitari significa sia potenziare le strutture ambulatoriali pubbliche a carattere specialistico, sia creare ospedali e case della salute di comunità, infermieri di comunità, medici di comunità (sempre disponibili, anche in forma associata), andando incontro alle esigenze dei cittadini. Ricordiamo a questo proposito anche la proposta di uno Sportello Unico per le persone con disabilità o non autosufficienti, magari a causa di infortuni sul lavoro, che sviluppi un modello di presa in carico a 360° gradi, o del SUF (Sportello unico per la famiglia) che consente al singolo nucleo familiare di avere un solo punto di riferimento per ogni pratica sociale e sanitaria, senza perdere tempo, con competenza.

È, in ogni caso, fondamentale favorire la domiciliarità attraverso progetti personalizzati di presa in carico dei soggetti più fragili (a partire dagli anziani) capaci di incidere sulle determinanti sociali della salute per dare risposta ai bisogni di cura, di alloggio, di socialità e dove possibile di formazione e lavoro (avendo come orizzonte il budget dei costi previsti dagli attuali LEA). Ad esempio, si possono adottare i budget di salute, che superano le RSA (per gli anziani) e rendono il territorio e i soggetti territoriali responsabili della presa in carico del soggetto fragile. Sostanzialmente si tratta di una possibilità gestionale innovativa per favorire la domiciliarità e la capacità di riconfigurare il sistema di offerta di servizi sociosanitaria attraverso la mobilitazione di più soggetti sulla base di un progetto personalizzato. È una forma di innovazione sociale che ha già effettuato alcune sperimentazioni e ora va estesa quanto più possibile, anche attraverso esperienze come le case della salute di comunità, l’infermiere di comunità, i medici di comunità (sempre disponibili, anche in forma associata).

Infine, la dotazione di infrastrutture digitali adeguate può consentire l’implementazione della telemedicina e della teleassistenza sotto il monitoraggio obbligatorio (oggi, anche laddove il servizio è sperimentato, è facoltativo) del medico di medicina generale, al fine di evitare ospedalizzazioni improprie.